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SINODO SULLA FAMIGLIA 2014
ALCUNE TRACCE PER CAPIRE COSA È SUCCESSO AL SINODO
"Un colpo di mano che non è riuscito. Lo definirei così il Sinodo straordinario sulla famiglia che si è appena concluso. Ma anche l’occasione per alcuni episcopati di mostrare la loro fedeltà al Vangelo... (Angela Ambrogetti)
INTRODUZIONE
La paziente rivoluzione di Francesco
Questa nota è uscita su "L'Espresso" n. 43 del 2014, in edicola dal 24 ottobre,
nella pagina d'opinione dal titolo "Settimo cielo" affidata a Sandro Magister
Su omosessualità e divorzio nel sinodo è mancato l'accordo, ma alla fine a decidere sarà il papa. E i cambiamenti che vuole introdurre li ha già in mente, anzi, li mette già in pratica. Un commento di Paul Anthony McGavin
Non è vero che
Francesco sia stato zitto, nelle due settimane del sinodo. Nelle omelie
mattutine a Santa Marta martellava ogni giorno gli zelanti della tradizione,
quelli che caricano sugli uomini fardelli insopportabili, quelli che hanno solo
certezze e nessun dubbio, gli stessi contro cui si è scagliato nel discorso di
congedo con i padri sinodali.
È tutto tranne che imparziale, questo papa. Ha voluto che il sinodo orientasse
la gerarchia cattolica verso una nuova visione del divorzio e dell'omosessualità
e ci è riuscito, nonostante il numero risicato dei voti favorevoli alla svolta,
dopo due settimane di discussione infuocata.
In ogni caso sarà lui alla fine a decidere, ha ricordato a cardinali e vescovi
che ancora avessero qualche dubbio. Per rinfrescare la loro memoria sulla sua
potestà "suprema, piena, immediata e universale" ha messo in campo non qualche
raffinato passaggio della "Lumen gentium" ma i canoni rocciosi del codice di
diritto canonico.
Sulla comunione ai divorziati risposati si sa già come il papa la pensi. Da
arcivescovo di Buenos Aires autorizzava i "curas villeros", i preti inviati
nelle periferie, a dare la comunione a tutti, sebbene i quattro quinti delle
coppie neppure fossero sposate. E da papa non teme di incoraggiare per telefono
o per lettera qualche fedele passato a seconde nozze a prendere tranquillamente
la comunione, subito, senza nemmeno quei previ "cammini penitenziali sotto la
responsabilità del vescovo diocesano" prospettati da qualcuno nel sinodo, e
senza nulla smentire quando poi la notizia di questi suoi gesti trapela.
I poteri assoluti di capo della Chiesa, Jorge Mario Bergoglio li esercita anche
così. E quando preme affinché l'insieme della gerarchia cattolica lo segua su
questa strada sa benissimo che la comunione ai divorziati risposati,
numericamente poca cosa, è il varco per una svolta ben più generalizzata e
radicale, verso quella "seconda possibilità di matrimonio", con conseguente
scioglimento del primo, che è ammessa nelle Chiese ortodosse d'oriente e che
lui, Francesco, già poco dopo la sua elezione a papa disse "si debba studiare"
anche nella Chiesa cattolica, "nella cornice della pastorale matrimoniale".
Era il luglio del 2013 quando il papa rese pubblica questa sua volontà. Ma in
quella stessa intervista sull'aereo di ritorno dal Brasile egli aprì il cantiere
anche sul terreno dell'omosessualità, con quel memorabile "chi sono io per
giudicare?" universalmente interpretato come assolutorio di atti da sempre
condannati dalla Chiesa ma ora non più, se compiuti da chi "cerca il Signore e
ha buona volontà".
Nel sinodo una svolta in questa materia non ha avuto vita facile. È stata
invocata in aula da non più di tre padri: dal cardinale Christoph Schönborn, dal
gesuita Antonio Spadaro, direttore del "La Civiltà Cattolica", e
dall'arcivescovo malese John Ha Tiong Hock.
Quest'ultimo si è appoggiato su un parallelo fatto da papa Francesco tra il
giudizio della Chiesa sulla schiavitù e quello sulla concezione che l'uomo
d'oggi ha di sé, omosessualità compresa, per dire che come il primo è cambiato
così può mutare anche il secondo giudizio.
Mentre padre Spadaro ha portato l'esempio fatto dal papa di una bambina adottata
da due donne, per sostenere che bisogna trattare queste situazioni in modo
positivo e nuovo.
Per aver poi inserito nel documento di lavoro di metà discussione tre paragrafi
che incoraggiavano la "crescita affettiva" tra due uomini o due donne
"integrando la dimensione sessuale", l'arcivescovo Bruno Forte, voluto dal papa
segretario speciale del sinodo, è stato sconfessato in pubblico dal cardinale
relatore, l'ungherese Péter Erdõ. E la successiva discussione tra i padri
sinodali ha fatto a pezzi i tre paragrafi, che nella "Relatio" finale si sono
ridotti a uno solo e senza più un briciolo di novità, nemmeno superando il
quorum dell'approvazione.
Ma anche qui papa Francesco e i suoi luogotenenti, da Forte a Spadaro
all'arcivescovo argentino Víctor Manuel Fernández, hanno centrato l'obiettivo di
far entrare questo tema esplosivo nell'agenda della Chiesa cattolica, ai suoi
più alti livelli. Il seguito si vedrà.
Perché la rivoluzione di Bergoglio procede così, "a lunga scadenza, senza
l'ossessione dei risultati immediati". Perché "l'importante è iniziare i
processi più che possedere spazi". Parole della "Evangelii gaudium", programma
del suo pontificato.
Caffarra Matrimonio Divorzio Comunione
Quella coppia di sposi che bussa alle porte del
sinodo ma che non È stata fatta entrare
Un
sinodo "aperto" come si è invocato da ogni parte, a cominciare da papa Francesco,
è un sinodo pronto ad ascoltare anche le voci che gli arrivano da fuori, tanto
più se da persone competenti. Subito alla vigilia del sinodo, a far da ponte
autorevole tra dentro e fuori le sue mura è stata l'assemblea plenaria tenuta a
Roma dal 2 al 4 ottobre dal "Consilium Conferentiarum Episcoporum Europæ".
L'assemblea era direttamente proiettata sul sinodo, fin dal suo titolo: "La
famiglia e il futuro dell'Europa". Tra gli oratori c'erano padri sinodali di
primo piano come il cardinale ungherese Péter Erdõ, presidente del CCEE e
relatore generale al sinodo, il cardinale canadese Marc Ouellet, prefetto della
congregazione per i vescovi, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della
conferenza episcopale italiana, e sua beatitudine Fouad Twal, patriarca latino
di Gerusalemme.
Ma soprattutto c'era una coppia di sposi filosofi, Ludmila e Stanislaw
Grygiel, polacchi, amici fin dalla giovinezza di Karol Wojtyla sacerdote,
vescovo e papa, entrambi docenti al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per
Studi su Matrimonio e Famiglia. L'Istituto è stato creato da papa Wojtyla nel
1982, due anni dopo un sinodo dedicato anch'esso alla famiglia e un anno dopo
l'esortazione apostolica "Familiaris consortio" che gli aveva dato attuazione.
Con sede centrale a Roma presso la Pontificia Università Lateranense, l'Istituto
ha sezioni in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Spagna, dal Brasile alla
Germania, dal Messico all'India, dal Benin alle Filippine, con un crescente
numero di studenti e studentesse. Tra i suoi presidi e docenti ha avuto i
cardinali Carlo Caffarra, Angelo Scola, Marc Ouellet.
Nell'imminenza del sinodo di questo ottobre l'Istituto ha prodotto una gamma
notevole di contributi. L'ultimo, dal titolo "Il Vangelo della famiglia nel
dibattito sinodale. Oltre la proposta del cardinale Kasper", è uscito
contemporaneamente in Italia edito da Cantagalli, negli Stati Uniti edito da
Ignatius Press, in Spagna edito da Biblioteca de Autores Cristianos e in
Germania edito da Media Maria Verlag. Ne sono autori il teologo spagnolo Juan
José Pérez-Soba e l'antropologo tedesco Stephan Kampowski, entrambi professori
presso la sede romana dell'Istituto. Ne ha scritto la prefazione il cardinale
australiano George Pell, uno degli otto porporati che assistono papa Francesco
nella riforma della curia e nel governo della Chiesa. Il 3 ottobre Pell ha anche
presentato il libro al pubblico, nella sede dell'Istituto.
Insomma, è difficile trovare oggi nella Chiesa cattolica un istituto di studi
filosofici, teologici e pastorali più autorevole e competente di questo, sui
temi del matrimonio e della famiglia. Eppure l'incredibile è avvenuto.
Nessuno dei docenti di questo Istituto pontificio è stato chiamato a prendere la
parola nel sinodo sulla famiglia che si è aperto il 5 ottobre e si chiuderà
il 19. Un motivo in più per riascoltare ciò che hanno detto Ludmila e Stanislaw
Grygiel nell'assemblea presinodale promossa dal consiglio delle conferenze
episcopali d'Europa. Ecco qui di seguito un estratto dei loro interventi,
argomentati e pronunciati con la "parresìa", ovvero con la franchezza, la
chiarezza, il coraggio, l'umiltà che papa Francesco ha raccomandato a tutti, in
questo sinodo.
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RIFLESSIONI SULLA PASTORALE DELLA FAMIGLIA
E DEL MATRIMONIO
di Ludmila Grygiel
[…] Chesterton ha detto che non abbiamo
bisogno di una Chiesa mossa dal mondo ma di una Chiesa che muove il mondo.
Parafrasando queste parole possiamo dire che oggi le famiglie, quelle in crisi e
quelle felici, non hanno bisogno di una pastorale adeguata al mondo ma di una
pastorale adeguata all'insegnamento di Colui che sa che cosa desidera il cuore
dell'uomo.
Il paradigma evangelico di questa pastorale lo vedo nel dialogo di Gesù con la
Samaritana, da cui emergono tutti gli elementi che caratterizzano l'attuale
situazione di difficoltà sia degli sposi che dei sacerdoti impegnati nella
pastorale.
Cristo accetta di parlare con una donna che vive nel peccato. Cristo non è
capace di odiare, è capace soltanto di amare e perciò non condanna la Samaritana
ma risveglia il desiderio originario del suo cuore offuscato dagli avvenimenti
di una vita disordinata. La perdona soltanto dopo che la donna ha confessato di
non avere marito.
Così il passo evangelico ricorda che Dio non fa dono della sua misericordia a
chi non la chiede e che il riconoscimento del peccato e il desiderio di
conversione sono la regola della misericordia. La misericordia non è mai un dono
offerto a chi non lo vuole, non è un prodotto in svendita perché non richiesto.
La pastorale richiede un'adesione profonda e convinta dei pastori alla verità
del sacramento.
Nel diario intimo di Giovanni Paolo II, troviamo questa nota scritta nel 1981,
anno terzo del suo pontificato: "La mancata fiducia nella famiglia è la prima
causa della crisi della famiglia".
Si potrebbe aggiungere che la mancata fiducia nella famiglia da parte dei
pastori è una fra le principali cause della crisi della pastorale famigliare.
Questa non può ignorare le difficoltà ma non si deve fermare su di esse e
ammettere sfiduciata la propria sconfitta. Non può adeguarsi alla casuistica dei
moderni farisei. Deve accogliere le samaritane non per nascondere la verità sul
loro comportamento ma per condurle alla conversione.
I cristiani sono oggi in una situazione simile a quella in cui si è trovato
Gesù, il quale nonostante la durezza del cuore dei suoi contemporanei ha
riproposto il modello del matrimonio così come voluto da Dio fin dal principio.
Ho l'impressione che noi cristiani parliamo troppo dei matrimoni falliti ma poco
dei matrimoni fedeli, parliamo troppo della crisi della famiglia ma poco del
fatto che la comunità matrimoniale e famigliare assicura all'uomo non solo la
felicità terrena ma anche quella eterna ed è il luogo in cui si realizza la
vocazione alla santità dei laici.
Così viene messo in ombra anche il fatto che, grazie alla presenza di Dio, la
comunità matrimoniale e famigliare non si limita al temporale ma si schiude al
sovratemporale, perché ciascuno degli sposi è destinato alla vita eterna ed è
chiamato a vivere in eterno al cospetto di Dio, che ha creato entrambi e li ha
voluti uniti sigillando egli stesso questa unione con il sacramento.
"L'AVVENIRE DELL'UMANITÀ PASSA ATTRAVERSO
LA FAMIGLIA"
(Familiaris consortio, 86)
di Stanislaw Grygiel
[…] L'ignorare l'amore "per sempre" di
cui Cristo parla alla Samaritana come del "dono di Dio" (Gv 4, 7-10) fa sì che i
coniugi e le famiglie, e in essi le società, smarriscano "la diritta via" e
vadano errando "per una selva oscura" come nell'Inferno di Dante, secondo le
indicazioni di un cuore indurito, "sklerocardia" (Mt 19, 8).
Una "misericordiosa" indulgenza, richiesta da alcuni teologi, non è in grado di
frenare l'avanzata della sclerosi dei cuori che non ricordano come siano le cose
"dal principio". L'assunto marxista secondo cui la filosofia dovrebbe cambiare
il mondo piuttosto che contemplarlo si è fatta strada nel pensiero di certi
teologi sì che questi, più o meno consapevolmente, invece di guardare l'uomo e
il mondo alla luce della Parola eterna del Dio vivente, guardano questa Parola
nella prospettiva di effimere, sociologiche tendenze. Di conseguenza
giustificano a seconda dei casi gli atti dei "cuori duri" e parlano della
misericordia di Dio così come se si sfrattasse di tolleranza tinta di
commiserazione.
In una teologia così fatta si avverte un disprezzo per l'uomo. Per questi
teologi l'uomo non è ancora abbastanza maturo da poter guardare con coraggio,
alla luce della misericordia divina, la verità del proprio diventare amore, così
come "dal principio" è questa stessa verità (Mt 19, 8). Non conoscendo "il dono
di Dio", essi adeguano la Parola divina ai desideri dei cuori sclerotici. È
possibile che non si rendano conto di star proponendo inconsciamente a Dio la
prassi pastorale da loro elaborata, come via che potrà condurLo alla gente. […]
Giovanni Paolo II si avvicinava a ogni matrimonio, anche a quelli spezzati, come
Mosè si avvicinava al roveto ardente sul monte Oreb. Non entrava nella loro
dimora senza essersi prima tolto i sandali dai piedi, poiché intravedeva
presente in essa il "centro della storia e dell'universo". […] Perciò egli non
s'inchinava davanti alle circostanze e non adattava ad esse la sua prassi
pastorale. […] Rischiando di essere criticato, insisteva sul fatto che non sono
le circostanze a dar forma al matrimonio e alla famiglia ma che sono invece
questi a darla alle circostanze. Prima accoglieva la verità e soltanto dopo le
circostanze. Mai permetteva che la verità dovesse fare anticamera. Coltivava la
terra dell'umanità non per effimeri successi ma per una vittoria imperitura.
Egli cercava la cultura del "dono di Dio", cioè la cultura dell'amore per
sempre.
La bellezza in cui si rivela l'amore che chiama l'uomo e la
donna a rinascere in "una carne" è difficile. Il dono esige un sacrificio, senza
di esso non è dono. […] Gli apostoli, non riuscendo a comprendere l'interiore
disciplina del matrimonio, dicono apertamente: "Se questa è la condizione
dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi". Allora Gesù dice qualcosa
che costringe l'uomo a guardare sopra di sé, se vuole conoscere chi egli stesso
sia: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso… Chi
può capire, capisca" (Mt 19, 10-12).
Una sera nella sua casa, erano gli anni Sessanta, il cardinale Karol Wojtyla era
rimasto a lungo in silenzioso ascolto degli interventi di alcuni intellettuali
cattolici che prevedevano una inevitabile laicizzazione della società. […]
Quando quei suoi interlocutori finirono di parlare, egli disse soltanto queste
parole: "Nemmeno una volta è stata da voi pronunciata la parola grazia". Ciò che
egli disse allora, lo ricordo ogni volta che leggo gli interventi di teologi che
parlano dl matrimonio nell'oblio dell'amore che avviene nella bellezza della
grazia. L'amore è grazia, è "dono di Dio". […]
Se così stanno le cose con l'amore, l'inserire nei ragionamenti teologici il
pietoso ma contrario alla misericordia adagio "nemo ad heroismum obligatur",
nessuno è obbligato ad essere eroe, avvilisce l'uomo. L'avvilisce contraddicendo
Cristo che sul monte delle beatitudini dice a tutti gli uomini: "Siate dunque
perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt , 48).
Con i matrimoni e le famiglie spezzati bisogna com-patire e non invece averne
pietà. In questo caso la pietà ha in sé qualcosa di dispregiativo per l'uomo.
Non lo aiuta ad aprirsi all'infinito amore al quale Dio l'ha orientato "prima
della creazione del mondo" (Ef 1, 4). Il sentimentalismo pietoso è dimentico di
come sono "dal principio" le cose dell'uomo, mentre la com-passione, essendo un
soffrire con quelli che si sono smarriti "nella selva oscura", ridesta in loro
la memoria del Principio e indica la via del ritorno ad esso. Questa via è il
Decalogo osservato nei pensieri e nelle azioni: "Non uccidere! Non fornicare!
Non rubare te stesso alla persona alla quale ti sei donato per sempre! Non
desiderare la moglie del tuo vicino!". […] Il Decalogo inciso nel cuore
dell'uomo difende la verità della sua identità, che si compie nel suo amare per
sempre. […]
In una delle nostre conversazioni su questi dolorosi problemi Giovanni Paolo II
mi disse: "Ci sono cose che devono essere dette senza riguardo per le reazioni
del mondo". […] I cristiani che per paura di essere riprovati come nemici
dell'umanità si piegano a compromessi diplomatici con il mondo deformano il
carattere sacramentale della Chiesa. Il mondo, ben conoscendo le debolezze
dell'uomo, ha colpito innanzitutto "l'una carne" di Adamo e di Eva. Cerca di
deformare in primo luogo il sacramento dell'amore coniugale e a partire da
questa deformazione cercherà di deformare tutti gli altri sacramenti. Questi
costituiscono infatti l'unità dei luoghi dell'incontro di Dio con l'uomo. […] Se
i cristiani si lasceranno convincere dal mondo che il dono della libertà recato
loro da Gesù rende difficile e persino insopportabile la loro vita, si porranno
al seguito del Grande Inquisitore dei "Fratelli Karamazov" e metteranno Gesù al
bando. Allora che cosa accadrà all'uomo? Che cosa accadrà a Dio che è diventato
uomo?
Prima di essere ucciso Gesù dice ai discepoli. "L'ora viene che chiunque vi
ucciderà crederà di rendere un culto a Dio… Al mondo avrete tribolazione, ma
fatevi coraggio, io ho vinto il mondo" (Gv 16, 2.33).
Facciamoci coraggio, non confondiamo l'intelligenza mondana della ragione
calcolante con la saggezza dell'intelletto che si allarga sino ai confini che
uniscono l'uomo con Dio. Erode ed Erodiade erano forse intelligenti, di certo
però non erano saggi. Saggio era san Giovanni Battista. Lui, non loro, aveva
saputo riconoscere la via, la verità e la vita.
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I testi integrali dei loro interventi all'assemblea plenaria
del "Consilium Conferentiarum Episcoporum Europæ":
> Ludmila Grygiel
> Stanislaw Grygiel
E il programma dell'assemblea:
> Plenary Assembly of CCEE, Rome, 2-4 october
2014
Sinodo sulla Famiglia - Il racconto delle due settimane di lavori
Vescovi divisi? Colpa della (cattiva) filosofia
Molti si saranno chiesti come sia possibile che su questioni di tanta importanza per la dottrina e la fede cattolica i vescovi e i cardinali la pensino in modo tanto diverso. Questi giorni di Sinodo, infatti, lo hanno messo in evidenza in modo perfino fin troppo plateale. I sacramenti, il peccato, la grazia, il matrimonio… i fedeli rimangono colpiti nel constatare nei maestri e nelle guide opinioni tanto diverse su queste cose di non marginale importanza.
Vorrei qui cercare una spiegazione in un elemento che non è finora emerso granché nel dibattito attorno al Sinodo. Mi riferisco alle filosofie di riferimento, che cardinali e vescovi adoperano per affrontare le questioni teologiche. La Fides et ratio di San Giovanni Paolo II dice che non si fa teologia senza una filosofia e che se non si assume una filosofia vera e conforme alla fede si finisce per assumerne un’altra non vera e difforme dalla fede. In ogni caso una filosofia la si assume.
Quale filosofia hanno assunto cardinali e vescovi che ora intervengono su questi problemi nell’aula del Sinodo ed anche fuori? Quale filosofia hanno studiato e fatta propria lungo i loro studi e nelle loro letture? La filosofia è lo strumento di cui si avvale la teologia. Uno strumento però non neutro, dato che condiziona la stessa teologia, perché ne determina oggetto, metodo e linguaggio.
Non è lo stesso se Dio viene inteso come l’ “Esse Ipsum” di San Tommaso d’Aquino o un “Trascendentale esistenziale” come fa Karl Rahner. Non è lo stesso ammettere la dimensione ontologica della fede (la dimensione che fa della fede una questione relativa all’essere) oppure riconoscere in essa solo una dimensione fenomenologica od esistenziale. Avendo alle spalle schemi filosofici diversi, i vescovi e i cardinali affronteranno i problemi teologici, compresi quelli del Sinodo, in modo diverso. Karl Rahner diceva che il pluralismo filosofico e teologico, oltre ad essere irreversibile era anche corretto e auspicabile. La Fides et ratio diceva invece di no. Sono convinto che la maggior parte dei teologi ha preferito Rahner alla Fides et ratio. La confusione delle lingue in questi giorni del Sinodo sembra però dare ragione a quest’ultima.
La dimensione cattolica della fede richiede, a mio avviso, ma mi sembra anche ad avviso della Fides et Ratio, la dimensione ontologica. Se la “nuova creatura” che nasce dal Battesimo non appartiene ad un nuovo piano dell’essere, allora è una verniciatura esistenziale o sentimentale. Se, sposandosi, i due coniugi non danno vita ad una nuova realtà, sul piano dell’essere, realtà che non è la somma di 1 + 1 (ed infatti “saranno due in una carne sola”), allora il matrimonio potrà essere esistenzialmente rivisto, rifatto, ricelebrato, ricontrattato. Se c’è una realtà nuova – ripeto: sul piano dell’essere – non si potrà più sciogliere. L’unica cosa che si potrà fare sarà accertare se esiste o no, ma se esiste nessuno ci può più fare nulla. Per accertare se esiste si dovrà fare una indagine veritativa e non semplicemente pastorale o amministrativa. Se invece il matrimonio ha solo carattere fenomenologico o esistenziale, allora non c’è nessuna realtà da appurare e tutto può essere rivisto e rimanipolato.
A ben vedere, tutta la vita di fede, e non solo il sacramento del matrimonio, ha un aspetto ontologico. La situazione di peccato non è solo una questione esistenziale, ma è la morte spirituale dell’essere della nostra anima. Chi vive volutamente in peccato mortale è spiritualmente – ossia ontologicamente – morto. Se vediamo le cose in questo modo come si potrà, in questo stato, accedere alla comunione? Il sacramento della comunione ci immette realmente, ontologicamente, nella vita divina. Esso non è una cerimonia di socializzazione, un rito sentimental-esistenziale.
Il sacramento della confessione ha pure natura ontologica, perché risana l’anima gravata dal peccato, la fa rivivere. Non è una seduta psicoterapeutica. Le grazie che riceviamo nei sacramenti sono vita reale, vita divina.
L’ingresso nella Chiesa, col Battesimo, non è la partecipazione ad una associazione, ma l’accesso ad una nuova dimensione dell’essere, in cui superiamo noi stessi e partecipiamo della vita della Trinità. Quando San Paolo dice “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” esprime questa novità ontologica della “nuova creatura”.
Quello che alcuni vescovi hanno detto dentro l’aula sinodale e ai microfoni dei giornalisti fuori dell’aula è conseguenza di quello che viene insegnato da molto tempo in molti seminari e studi teologici. Del resto, anche i vescovi non cadono dal cielo, ma hanno avuto dei maestri e sono stati educati in un certo contesto di cultura filosofica. Ora, se queste filosofie che si insegnano non sono conformi a quanto indica la Fides et ratio, è logico e conseguente che anche l’esame dei temi del matrimonio, del divorzio e della comunione venga deviato dalle attese della Fides et ratio.
Per esempio: se Dio è un “trascendentale esistenziale”, come afferma Karl Rahner, tutti ci siamo dentro, la coppia sposata, quella di fatto ed anche quella omosessuale. Non esistono gli atei, come non esistono i peccatori. Ci sarà solo un cammino per passare dall’essere cristiani anonimi all’essere cristiani nonimi; un cammino da fare insieme, senza escludere o condannare nessuna situazione particolare di vita, perché tutte possono essere un buon punto di partenza. Molti vescovi esprimono questa visione teologica che però riflette una particolare filosofia di tipo esistenzialista. Karl Rahner era allievo di Heidegger, non di San Tommaso. Quanti vescovi sanno di Rahner e non di San Tommaso?
Il grande filosofo Cornelio Fabro poneva la questione in termini di rapporto tra essenza ed esistenza. Sartre diceva che l’esistenza precede l’essenza, Fabro diceva che l’essenza precede l’esistenza. Anche in questo Sinodo il problema filosofico – e quindi poi anche teologico – è questo. Se il matrimonio come sacramento sia un dato ontologico che riguarda l’essenza o se sia solo un dato esistenziale, reversibile a piacere.
Sinodo sulla Famiglia - Il discorso di Papa Francesco alla conclusione del Sinodo
Ruini: la comunione ai divorziati risposati non è
possibile. Il magistero è chiaro e non modificabile
Quella
cellula fondamentale della società che è la famiglia sta attraversando un
periodo di straordinariamente rapida evoluzione. Ormai appaiono ovvi i
rapporti prematrimoniali e pressoché normali i divorzi, molto spesso come
conseguenza della rottura della fedeltà coniugale. Ci allontaniamo così dalla
fisionomia tradizionale della famiglia, nei paesi e nelle civiltà segnati dal
cristianesimo. Negli ultimi decenni poi, almeno in Occidente, siamo entrati in
territori inesplorati. Si sono fatta strada, infatti, le idee del "gender" e dei
“matrimoni omosessuali”. Alla radice di tutto ciò vi è il primato, e quasi
l’assolutizzazione, della libertà individuale e del sentimento personale. Perciò
il legame familiare deve essere plasmabile a piacere e comunque non impegnativo,
fino a scomparire o ad essere praticamente irrilevante. Nella medesima logica
questo legame deve essere accessibile a ogni tipo di coppia, sulla base della
rivendicazione di una totale uguaglianza che non accetta le differenze,
soprattutto quelle riconducibili a una volontà esterna, sia essa umana (le leggi
civili) o divina (la legge naturale). Rimane forte e diffuso, tuttavia, il
desiderio di avere una famiglia e possibilmente una famiglia stabile: desiderio
che si traduce nella realtà di tante famiglie “normali” e anche di numerose
famiglie autenticamente cristiane. Queste ultime sono certo una minoranza, ma
consistente e assai motivata.
La sensazione che la famiglia propriamente intesa stia scomparendo è dunque
in buona parte frutto della distanza tra il mondo reale e il mondo virtuale
costruito dai mezzi di comunicazione, sebbene non si debba dimenticare che
questo mondo virtuale influisce potentemente sui comportamenti reali. A uno
sguardo sereno ed equilibrato appaiono quindi poco fondati, riguardo alla
famiglia e al suo futuro, il pessimismo unilaterale e la rassegnazione. Vale
piuttosto anche per la pastorale della famiglia l’atteggiamento del Concilio
Vaticano II verso i tempi nuovi, atteggiamento che possiamo riassumere nel
binomio accoglienza e riorientamento verso Cristo salvatore. In concreto, nella
"Gaudium et spes", nn. 47-52, abbiamo riguardo al matrimonio e alla famiglia un
nuovo approccio, assai più personalistico ma senza rotture con la concezione
tradizionale. Poi le catechesi sull’amore umano di san Giovanni Paolo II e
l’esortazione apostolica "Familiaris consortio" hanno costituito un grande
approfondimento, che apre prospettive nuove e affronta molti dei problemi
attuali. Sebbene queste catechesi non potessero misurarsi esplicitamente con gli
sviluppi più recenti e più radicali, come la teoria del "gender" e il matrimonio
tra persone dello stesso sesso, hanno tuttavia già posto, in buona misura, le
basi per affrontarli.
Indubbiamente la pratica pastorale non sempre è stata all’altezza di questi
insegnamenti – e del resto non può mai esserlo compiutamente –, ma si è
mossa nella loro linea con importanti risultati: sono anche suo frutto, infatti,
le nostre giovani famiglie cristiane. Ora, con papa Francesco, abbiamo due
sinodi riguardo alle sfide pastorali sulla famiglia nel contesto della nuova
evangelizzazione, dopo il concistoro del febbraio scorso che è già entrato
nell’argomento: una tappa ulteriore in questo cammino di accoglienza e
riorientamento che tutta la Chiesa è chiamata a percorrere con fiducia. L’ottica
dei due sinodi deve essere chiaramente universale e nessuna area geografica o
culturale può pretendere che i sinodi si concentrino solo sui propri problemi.
Ciò premesso, per l’Occidente le questioni più rilevanti sembrano essere quelle
più radicali sorte negli ultimi decenni. Esse spingono a ripensare e rimotivare,
alla luce del Vangelo della famiglia, il significato e il valore del matrimonio
come alleanza di vita tra l’uomo e la donna, orientata al bene di entrambi e
alla generazione ed educazione dei figli e dotata di una decisiva rilevanza
anche sociale e pubblica. Qui la fede cristiana deve mostrare una vera
creatività culturale, che i ainodi non possono produrre automaticamente ma
possono stimolare, nei credenti e in quanti si rendono conto che è in gioco una
fondamentale dimensione umana.
Continuano però ad interpellarci e sembrano diventare sempre più acute anche
altre questioni, già ripetutamente affrontate dal magistero. Tra queste
quella dei divorziati risposati. La "Familiaris consortio", n. 84, ha già
indicato l’atteggiamento da assumere: non abbandonare coloro che si trovano in
questa situazione, ma al contrario averne speciale cura, impegnandosi a mettere
a loro disposizione i mezzi di salvezza della Chiesa. Aiutarli quindi a non
considerarsi affatto separati dalla Chiesa e a partecipare invece alla sua vita.
Discernere bene, inoltre, le situazioni, specialmente quelle dei coniugi
abbandonati ingiustamente rispetto a quelle di chi ha invece colpevolmente
distrutto il proprio matrimonio. La medesima "Familiaris consortio" ribadisce
però la prassi della Chiesa, “fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere
alla comunione eucaristica i divorziati risposati”. La ragione fondamentale è
che “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a
quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata e attuata
dall’Eucaristia”. Non è dunque in questione una loro colpa personale ma lo stato
in cui oggettivamente si trovano. Perciò l’uomo e la donna che per seri motivi,
come ad esempio l’educazione dei figli, non possono soddisfare l’obbligo della
separazione, per ricevere l’assoluzione sacramentale e accostarsi all’Eucaristia
devono assumere “l’impegno di vivere in piena castità, cioè di astenersi dagli
atti propri dei coniugi”.
Si tratta indubbiamente di un impegno molto difficile, che di fatto viene
assunto da pochissime coppie, mentre sono purtroppo sempre più numerosi i
divorziati risposati. Si stanno cercando quindi, da tempo, altre soluzioni. Una
di esse, pur mantenendo ferma l’indissolubilità del matrimonio rato e consumato,
ritiene di poter consentire ai divorziati risposati di ricevere l’assoluzione
sacramentale e di accostarsi all’Eucaristia, a precise condizioni ma senza
doversi astenere dagli atti propri dei coniugi. Si tratterebbe di una seconda
tavola di salvezza, offerta in base al criterio della "epicheia" per unire alla
verità la misericordia. Questa via non sembra però percorribile, principalmente
perché implica un esercizio della sessualità extraconiugale, dato il perdurare
del primo matrimonio, rato e consumato. In altre parole, il vincolo coniugale
originario continuerebbe ad esistere ma nel comportamento dei fedeli e nella
vita liturgica si potrebbe procedere come se esso non esistesse. Siamo quindi di
fronte a una questione di coerenza tra la prassi e la dottrina, e non soltanto a
un problema disciplinare. Quanto alla "epicheia" e alla "aequitas" canonica,
esse sono criteri molto importanti nell’ambito delle norme umane e puramente
ecclesiali, ma non possono essere applicate alle norme di diritto divino, sulle
quali la Chiesa non ha alcun potere discrezionale.
A sostegno dell’ipotesi predetta si possono certamente addurre soluzioni
pastorali analoghe a quelle proposte da alcuni Padri della Chiesa ed entrate
in qualche misura anche nella prassi, ma esse non ottennero mai il consenso dei
Padri e non furono in alcun modo dottrina o disciplina comune della Chiesa (cfr.
la lettera della congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della
Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di
fedeli divorziati risposati, 14 novembre 1994, n. 4). Nella nostra epoca,
quando, per l’introduzione del matrimonio civile e del divorzio, il problema si
è posto nei termini attuali, esiste invece, a partire dall'enciclica "Casti
connubii" di Pio XI, una chiara e costante posizione comune del magistero, che
va in senso contrario e che non appare modificabile. Si può obiettare che il
Concilio Vaticano II, senza violare la tradizione dogmatica, ha proceduto a
nuovi sviluppi su questioni, come quella della libertà religiosa, sulle quali
esistevano encicliche e decisioni del Sant'Ufficio che sembravano precluderli.
Ma il paragone non convince perché sul diritto alla libertà religiosa si è
prodotto un autentico approfondimento concettuale, riconducendo questo diritto
alla persona come tale e alla sua intrinseca dignità, e non alla verità
astrattamente concepita, come si faceva in precedenza.
La soluzione proposta sui divorziati risposati non si basa invece su un
simile approfondimento. I problemi della famiglia e del matrimonio incidono
inoltre sul vissuto quotidiano delle persone in maniera incomparabilmente più
grande e concreta rispetto a quelli della fondazione della libertà religiosa, il
cui esercizio nei paesi di tradizione cristiana già prima del Vaticano II era
comunque in larga misura assicurato. Dobbiamo quindi essere molto prudenti nel
modificare, riguardo al matrimonio e alla famiglia, le posizioni che il
magistero propone da gran tempo e in maniera tanto autorevole: in caso contrario
sarebbero assai pesanti le conseguenze sulla credibilità della Chiesa. Ciò non
significa che ogni possibilità di sviluppo sia preclusa. Una strada che appare
percorribile è quella della revisione dei processi di nullità del matrimonio: si
tratta infatti di norme di diritto ecclesiale, e non divino. Va quindi esaminata
la possibilità di sostituire il processo giudiziale con una procedura
amministrativa e pastorale, rivolta essenzialmente a chiarire la situazione
della coppia davanti a Dio e alla Chiesa. È molto importante però che qualsiasi
cambiamento di procedura non diventi un pretesto per concedere in maniera
surrettizia quelli che in realtà sarebbero divorzi: un’ipocrisia di questo
genere sarebbe un gravissimo danno per tutta la Chiesa. Una questione che va al
di là degli aspetti procedurali è quella del rapporto tra la fede di coloro che
si sposano e il sacramento del matrimonio.
La "Familiaris consortio", n. 68, mette giustamente l’accento sui motivi che
inducono a ritenere che chi chiede il matrimonio canonico abbia fede, sia
pure in grado debole e da riscoprire, rafforzare e far maturare. Sottolinea
inoltre che delle ragioni sociali possono lecitamente entrare nella richiesta di
questa forma di matrimonio. È sufficiente pertanto che i fidanzati “almeno
implicitamente acconsentano a ciò che la Chiesa intende fare quando celebra il
matrimonio”. Voler stabilire ulteriori criteri di ammissione alla celebrazione,
che riguardino il grado di fede dei nubendi, comporterebbe invece gravi rischi,
a cominciare da quello di pronunciare giudizi infondati e discriminatori. Di
fatto, però, sono purtroppo molti oggi i battezzati che non hanno mai creduto o
non credono più in Dio. Si pone dunque la questione se essi possano validamente
contrarre un matrimonio sacramentale. Su questo punto rimane di valore
fondamentale l’introduzione del cardinale Ratzinger al volumetto "Sulla
pastorale dei divorziati risposati" pubblicato nel 1998 dalla congregazione per
la dottrina della fede. Ratzinger (Introduzione, III, 4, pp. 27-28) ritiene che
si debba chiarire “se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è 'ipso
facto' un matrimonio sacramentale”. Il Codice di diritto canonico lo afferma
(can. 1055 § 2) ma, come osserva Ratzinger, il Codice stesso dice che ciò vale
per un valido contratto matrimoniale, e in questo caso è precisamente la
validità a essere in questione. Ratzinger aggiunge: “All’essenza del sacramento
appartiene la fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale
evidenza di 'non fede' abbia come conseguenza che un sacramento non si
realizzi”.
Sembra pertanto accertato che, se veramente non c’è fede, non c’è nemmeno il
sacramento del matrimonio. Riguardo alla fede implicita la tradizione
scolastica, con riferimento a Ebrei 11, 6 (“chi si avvicina a Dio deve credere
che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano”), richiede almeno la
fede in Dio rimuneratore e salvatore. Mi sembra però che questa tradizione vada
aggiornata alla luce dell’insegnamento del Vaticano II, in base al quale possono
giungere alla salvezza che richiede la fede anche “tutti gli uomini di buona
volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia”, compresi coloro che si
ritengono atei o comunque non sono giunti a una conoscenza esplicita di Dio
(cfr. "Gaudium et spes", 22; "Lumen gentium", 16). Ad ogni modo questo
insegnamento del Concilio non implica affatto un automatismo della salvezza e
uno svuotamento della necessità della fede: mette invece l’accento non su un
astratto riconoscimento intellettuale di Dio bensì su una, per quanto implicita,
adesione a lui come scelta fondamentale della nostra vita. Alla luce di questo
criterio, nella situazione attuale sono forse da ritenere ancora più numerosi i
battezzati che di fatto non hanno fede e che pertanto non possono contrarre
validamente il matrimonio sacramentale. Sembra quindi davvero opportuno e
urgente impegnarsi a chiarire la questione giuridica di quella “evidenza di non
fede” che renderebbe non validi i matrimoni sacramentali e che impedirebbe per
il futuro ai battezzati non credenti di contrarre un tale matrimonio.
Non dobbiamo nasconderci, d’altra parte, che si apre così la via a
cambiamenti molto profondi e carichi di difficoltà, non solo per la
pastorale della Chiesa ma anche per la situazione dei battezzati non credenti. È
chiaro infatti che essi hanno, come ogni persona, diritto al matrimonio, che
contrarrebbero in forma civile. La difficoltà maggiore non sta nel pericolo di
compromettere il rapporto tra ordinamento canonico e ordinamento civile: la loro
sinergia è già diventata infatti molto debole e problematica, per il progressivo
allontanarsi del matrimonio civile da quelli che sono i requisiti essenziali
dello stesso matrimonio naturale. L’impegno dei cristiani e di quanti siano
consapevoli dell’importanza umana e sociale della famiglia fondata sul
matrimonio dovrebbe piuttosto essere rivolto ad aiutare gli uomini e le donne di
oggi a riscoprire il significato di quei requisiti. Essi si fondano nell’ordine
della creazione e proprio per questo valgono per ogni tempo e possono
concretizzarsi in forme adatte ai tempi più diversi. Vorrei terminare
richiamando l’intenzione comune che anima coloro che stanno intervenendo nel
dibattito sinodale: tenere insieme, nella pastorale della famiglia, la verità di
Dio e dell’uomo con l’amore misericordioso di Dio per noi, che è il cuore del
Vangelo.
APPENDICE
LETTERA APERTA A PAPA FRANCESCO
DA PARTE DI UN TEOLOGO AMERICANO
APPROFONDIMENTO
Le dure critiche del vescovo di
Bayonne alla conduzione del Sinodo
La vera storia di questo sinodo
Dopo il Sinodo, fedeli ancora più confusi
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