IL PERCHE' DELLA SOFFERENZA

di Padre Andrea D'Ascanio

INTRODUZIONE

Quando si parla dell'Amore che Dio ha per noi, le obiezioni più frequenti sono: "Ma se Dio è un Padre onnipotente che ci ama con infinita bontà, perchè ci lascia soffrire? E se è Sapienza infinita a cui nulla è ignoto del passato e del futuro, perchè ha permesso la tentazione di Adamo ed Eva, quando sapeva che non la avrebbero superata? Perchè il doloredegli innocenti? Scomparirà mai la sofferenza dalla faccia della terra?" Queste domande, e le tante altre che fanno da corollario, mettono continuamente in crisi i catechisti e si prolungano in inutili e dannose discussioni. Cerchiamo di comprendere perchè Dio ha permesso la sofferenza e il peccato. Poi vedremo se, come e quando la sofferenza scomparirà. 

 

LA SOFFERENZA NON E’ STATA CREATA DA DIO

 

            Dio aveva creato l’uomo per farlo partecipe della Sua infinita felicità, e nei Suoi disegni l’uomo avrebbe dovuto vivere senza dolore, o almeno senza dolori esistenziali e disperanti. Forse avrebbe avuto solo la sofferenza “pedagogica”, necessaria per prendere coscienza delle realtà del creato (le spine pungono, il fuoco scotta, ecc.).

 

            Staccandosi da Dio con una scelta libera ed errata – il peccato – l’uomo ha innescato tutto un processo di realtà negative, delle quali la peggiore in assoluto è la morte: “Per peccatum, mors” (“per colpa del peccato, la morte”), dirà lapidariamente San Paolo, rifacendosi alle prime pagine del Genesi: “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gn 2 ,16).

 

            Come conseguenza del peccato non dobbiamo intendere solo la morte, o meglio le due morti – quella spirituale prima e quella materiale poi – ma anche la sofferenza di ogni tipo che ne è il sottoprodotto: “Alla donna disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze: con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finchè tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gn 3,16-19).

 

            E’ fondamentale una chiarificazione su questa serie di amare vicende scaturite dal peccato: esse non sono la pesante sentenza che il Padre emette per punire i figli ribelli: sono invece la realistica prospettiva delle “disgrazie” nelle quali essi incorreranno se non si pentiranno del peccato commesso che li ha privati della “grazia”.

 

            Il Padre, sin dal primo istante dopo il peccato, “incalza” con il Suo Amore questi figli che si nascondono e cerca di provocare il loro pentimento, rivolgendosi prima ad Adamo “Dove sei?” e poi ad Eva: “Che hai fatto?” (Gn 3,8-12).

 

            Sarebbe bastato che almeno uno di loro Gli avesse detto: “Ho sbagliato! E’ colpa mia!” per permettere al Padre di alitare nuovamente su di loro il Soffio vitale che li avrebbe rigenerati nello spirito e reintegrati nel primitivo stato di “grazia”, cioè della vita divina che li aveva resi figli di Dio e re del creato.

 

            Dal momento che loro non rispondono al Suo richiamo d’Amore, il Padre prova “con le maniere forti”, presentando il drammatico quadro delle conseguenze del loro peccato, nella speranza che – per timore se non per amore – riconoscano il loro errore.

 

IL PADRE E’ SEMPRE PRONTO AL PERDONO

 

            Non è questo lo stile che Dio adotterà mediante i profeti ed i santi?

 

            Per convincercene basta fare un parallelo biblico con quello che Dio, attraverso il profeta Natan, dice a Davide dopo i suoi molti e grandi peccati: “Tu hai colpito di spada Uria l’Hittita, ha preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti. Ebbene, la spada non si allontanerà dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Uria l’Hittita. Così dice il Signore: Ecco io sto per suscitare contro di te la sventura dalla tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un tuo parente stretto, che si unirà a loro alla luce di questo sole; poiché tu l’hai fatto in segreto, ma io farò questo davanti a tutto Istraele e alla luce del sole.” Allora David disse a Natan: “Ho peccato contro il Signore!”. Natan rispose a David: “Il Signore ha perdonato il tuo peccato; tu non morirai” (2Sam 12,9-13).

 

            Dio, per messo del profeta Natan che parla a Suo nome, usa con Davide lo stesso tono e lo stesso stile che usò con Adamo.

            Davide riconosce il suo peccato ed è salvo: tutte le sciagure prospettate su di lui e sulla sua famiglia vengono sciolte dal Padre che “perdona il peccato” e libera dalle sue conseguenze.

            Adamo invece non riconosce la sua colpa e il Padre non può non intervenire con la Sua misericordia; la famiglia umana dovrà subire tutto ciò che il peccato comporta: la sofferenza, la morte e tutte le angherie del “padrone” di cui il capostipite si è reso schiavo.

 

IL PADRE PROVVEDE AI FIGLI ANCHE DOPO IL PECCATO: L’ANGELO CUSTODE

 

            “Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i Cherubini e la fiamma della spada sfolgorante, per custodire la via all’albero della vita” (gn 3,24).

 

            Anche queste parole, che leggiamo subito dopo e che vengono interpretate come il “tocco finale” della tremenda punizione di Dio, vanno lette tutte in chiave di Amore: il Padre, nella Sua infinita tenerezza e premura, dona allo spirito dell’uomo – ormai privo della Luce soprannaturale – l’Angelo Custode che lo guiderà, lo custodirà, lo illuminerà e difenderà la sua anima con tutta la potenza di Fuoco dell’Amore del Padre.

 

            L’albero della vita è infatti l’anima, la scintilla divina immessa nell’uomo e che l’omicida sin dall’inizio vorrebbe colpire dopo aver inquinato lo spirito e il corpo dell’uomo.

 

            Abbiamo già chiarito questi concetti in “Spirito, Anima e Corpo” e nel I^ volume di “Dio è Padre”. Non possiamo approfondire nuovamente tale argomento in questa sede. Quello che ora ci siamo proposto è dimostrare che la sofferenza è frutto di una libera ed ostinata scelta dell’uomo e non di una punizione che il Padre gli infligge.

 

            Come un padre terreno ama con maggiore tenerezza un figlio malato, drogato, fuggito di casa e finito in carcere, cos’ il Padre nel Cielo ama più che mai questi figli ribelli. Nel Suo Cuore di Padre, per loro, c’è solo tenerezza infinita più che mai ora che sono divenuti fragili nella volontà e spenti nello spirito, insensibili ai Suoi richiami d’Amore e schiavi del “padrone” che umilierà in modo sempre più pesante la loro sacralità divina e la loro dignità regale.

 

LA “VENDETTA” DEL PADRE

 

            La “vendetta” del Padre è scritta con estrema chiarezza nella Sua azione immediatamente successiva: “Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (Gn 3,2), cioè il Padre, con tenerezza materna, riveste la loro umanità di un nuovo dono nell’ordine naturale. Grazie a questa nuova “tunica” l’uomo – indifeso contro il male perché privato della divina Forza della Grazia – potrà affrontare le inevitabili lotte che si scateneranno nel “giardino” divenuto ora una “giungla”. Per colpa del peccato infatti la terra diviene “corrotta e piena di violenza” (Gn 6,7).

 

            Il persistere nel peccato renderà l’uomo sempre meno “immagine e somiglianza di Dio” (gn 1,26). E’ il grande lamento del Padre che constata con amarezza il continuo degrado dei Suoi figli: “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne … Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande su tutta la terra, e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male” (Gen. 6,4 ss.).

 

            Aumentano i peccati a causa del sempre maggiore indurimento del cuore dell’uomo e di conseguenza aumenta anche la sofferenza.

            Quando tutta l’umanità giacerà nelle tenebre del peccato e della morte, il Padre manifesterà tutto il Suo Amore per noi inviando sulla terra il Figlio Suo che, divenendo “figlio dell’uomo”, farà Sue tutte le sofferenze dell’umanità: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4).

 

IL PADRE NON VUOLE LA NOSTRA SOFFERENZA

 

            Gesù è “la luce che splende nelle tenebre” (Gv 1,5) degli spiriti spenti al sorriso e alla speranza; è la Vita che viene nella carne di corpi condannati alla sofferenza e alla morte. Nel Suo peregrinare terreno si imbatte continuamente in fiumane di morte che affronta e scioglie con la Potenza vitale del Padre, lasciando una ininterrotta scia di Luce e di Gioia:

“Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva” (Mt 5,23-25).

 

            Ogni volta che Gesù si imbatte nella sofferenza c’è qualcosa che freme e si ribella nel suo intimo, al punto che a volte interviene senza esserne richiesto, per un incontenibile impulso interiore, come nel caso della morte del giovane di Nain e di Lazzaro:

“Ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: “Non piangere!” E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Giovinetto, dico a te, alzati!”. Il moro si levò a sedere e incominciò a parlare” (Lc 7,12-14).

 

“Gesù si commosse profondamente, si turbò … e ancora profondamente commosso si recò al sepolcro … alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato” E detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì …. (Gc 11,33 ss.)

 

            Quando Gesù invia i dodici nel mondo, nella loro prima missione apostolica, dà loro questo mandato specifico: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni”  (Mt 10,9).

            Al termine della sua missione terrena, prima di tornare al Padre, rinnova questo mandato, ed “essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (Mc 16,20).

            E nel Padre Nostro, la preghiera per eccellenza, Gesù non ci invita a chiedere al Padre di “liberarci dal male” cioè da ogni sofferenza “passata, presente e futura”, come preghiamo durante la S. Messa, subito dopo la recita del Pater?

 

            Coraggio, fratelli. Gesù ci ama, è dalla nostra parte. Non vuole la nostra sofferenza, anzi, come aveva detto tante volte per mezzo dei profeti, è venuto per “prendere su di sé le nostre sofferenze”. E ha mantenuto la promessa.

 

GESU’ E IL PADRE SONO UN MEDESIMO AMORE

 

            E non diciamo eresie blasfeme di questo genere: “Sì, forse è vero, Gesù ci ama … però dovremo comunque fare i conti con la giustizia del Padre, che ci maledirà e punirà per tutta l’eternità …” Non diciamo queste cose brutte del nostro Papà del Cielo.

            E’ vero che anche Filippo nella Cena dell’addio espresse un timore del genere diffuso in tutti gli apostoli “Signore, mostraci il Padre e ci basta!” (Gc 14,8). Ma gli apostoli erano stati educati alla fede nel terribile Dio degli eserciti, del Dio delle vendette, del Dio dalla implacabile giustizia. Questa scusante non è valida per noi che conosciamo la risposta di Gesù:

“Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è in me compie le sue opere. Credetemi, io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse” (Gv 14,9-11).

 

            Se c’è una “differenza” tra l’Amore del Padre e quello del Figlio, usando un linguaggio e una logica umana, è che il Padre ci ama di più: Egli non dà infatti la propria vita, ma quella del Figlio. San Giovanni resta estasiato e annichilito dinanzi a questa constatazione dell’amore del Padre per noi:

 

“TANTO Dio ha amato il mondo, da dare il Suo unico Figlio” (Gv 3,16).

 

            Come facciamo ad incolpare il Padre per le nostre sofferenze, se Lui, per togliercele, ci ha donato il Figlio e Se stesso nel Figlio?

            Fratelli miei, non dobbiamo avere paura di Dio. Anche Dio Padre è dalla nostra parte. E anche Dio Spirito Santo è dalla nostra parte. La Trinità è un unico infinito Amore, ed è tutta dalla nostra parte.

 

 

I TANTI INTERROGATIVI DELLA SOFFERENZA

 

            Ma a questo punto sorgono inquietanti interrogativi. Ne elenchiamo alcuni, che riteniamo i principali:

Ø      Perché il Padre, per salvarci, ha scelto la sofferenza?

Ø      Perché nel mondo c’è ancora tanta sofferenza, se Gesù tutto ha “compiuto” per riscattarci?

Ø      Perché Gesù permette la sofferenza anche per noi, Suoi “amici”?

Ø      Perché la sofferenza è necessaria per farci santi? L’Amore non è da più della sofferenza?

Ø      Perché i santi hanno tanto amato la sofferenza?

Ø      Perché la sofferenza accettata è la massima testimonianza di amore al Padre?

Ø      Perché la sofferenza accettata è la massima testimonianza di amore ai fratelli?

Ø     Perché Gesù ci invita a “prendere la croce” e insieme a “stare nella pace e nella gioia”? Non sono due        cose incompatibili?

Ø      Perché Dio permette il dolore innocente?

 

Perché il Padre, per salvarci, ha scelto la sofferenza?

 

            Non è stato il Padre a scegliere la sofferenza per pagare il nostro riscatto: è un prezzo che Gli è stato imposto da satana. Per comprendere questa asserzione, esaminiamo prima di tutto il concetto di “riscatto”: RISCATTO: il riscattare e il prezzo pagato per riscattare – liberazione da schiavitù – redenzione del genere umano operata da Gesù Cristo” (Palazzi).

 

            Per noi, che viviamo in clima di continui sequestri di persona, il concetto di “riscatto” è di facile comprensione: il prezzo del riscatto lo stabilisce chi ha in mano il prigioniero. Immaginiamo ora questo dialogo tra Dio e satana, simile a quello che ci fu nel caso di Giobbe (gb 1 ss):

 

Il Signore disse a satana: - “Voglio con me i miei figli, gli uomini che tu hai indotto al male e reso tuoi schiavi, condannandoli alla sofferenza e alla morte. Io li amo e li voglio di nuovo liberi e felici. Sono tuoi prigionieri, la Io ti pagherò il riscatto. Cosa vuoi per la loro liberazione?” 

Satana rispose: “Tu sei la Vita e la Gioia. Voglio la tua sofferenza e la tua morte, le cose che più ti ripugnano. Solo se accetterai questo “prezzo” potrai “riscattare” i tuoi figli.”

Il Signore rispose: “Bene pagherò il riscatto che tu chiedi”.

 

            Più o meno le trattative devono essere andate in questo modo, stando a quello che è successo dopo e di cui abbondantemente parlano la Sacra Scrittura, la Liturgia e i Santi Padri.

            Per poter soffrire, Dio – che è per definizione “impassibile” – doveva prendere un corpo umano e con questo pagare il prezzo della sofferenza e di morte che Gli era stato imposto. E così ha fatto:

 

“E’ impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri. Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà.

… Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Eb 10,4 ss)

 

            Siamo abituati a considerare Dio sempre e solo nella Sua onnipotenza, grazie alla quale, a nostro parere, dovrebbe risolvere tutto come a tocco di bacchetta magica. E, se non fa come diciamo noi, Gli rinfacciamo il Suo non-amore per noi.

            Faremmo bene invece a meditare sulla nostra dignità di figli di Dio, sulla tremenda responsabilità della nostra libertà e sulle ripercussioni di portata infinita che, nel bene e nel male, hanno le nostre azioni.

            Al punto da costringere Dio a prendere un corpo di carne e a farsi maciullare, spiritualmente e materialmente, per porre rimedio ai nostri capricci.

 

Perché nel mondo c’è ancora tanta sofferenza, se Gesù “tutto ha compiuto” per riscattarci?

 

            Gesù, prima di spirare in croce, lancia il suo grido di trionfo: “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30), dichiarando al cielo, alla terra e agli inferi che ha pienamente realizzato il progetto del Padre.

            San Paolo conferma tale compiutezza e ne specifica la portata: “Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5,19).

 

            Ma nello stesso San Paolo leggiamo: “Completo quello che manca alla passione di Cristo” (Col 1,24). E qui qualcosa comincia a non quadrare: se nella passione di Gesù “tutto è compiuto” , cosa deve completare Paolo nel suo corpo? E cosa manca alla passione di Gesù, che ha sofferto oltre ogni limite dell’umano soffribile, come ci viene scientificamente attestato dai tanti studi della Sindone?

            Possiamo cercare l’unica spiegazione in quello che abbiamo accennato all’inizio, e cioè che il frutto del peccato non è stato una sola morte, bensì due: quella dello spirito prima e quella del corpo dopo. E questo ce lo dice la Scrittura:

            “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gn 2,16-17).

 

            Abbiamo visto che Adamo, dopo aver mangiato il frutto proibito, rimane fisicamente in vita. Il peccato porta, come primo frutto, la morte dello spirito che si manifesta all’esterno con il non-amore, il giudizio, la violenza, come dimostrano Adamo e Caino. La “morte fisica” sopravverrà in un secondo momento, come conseguenza della “morte dello spirito” che si è spento e non può più trasmettere al corpo l’eterna Forza vitale di Dio (Gn 6,5).

            Di fatto, due sono gli “agoni” (dal greco lotta, combattimento) che Gesù, durante la passione, sostiene contro la morte: il primo contro la morte dello spirito, nell’agonia spirituale del Getsemani; il secondo contro la morte del corpo, nell’agonia fisica del Golgota. Il primo per il riscatto degli spiriti, il secondo per il riscatto dei corpi.

            Gesù, con l’aiuto del Padre, vince in pienezza ambedue i combattimenti. Ma c’è una fondamentale differenza tra queste due “agonie”:

            La prima, proprio vero perché vissuta e vinta nello spirito – che è infinito, e quindi senza confini alla sua azione – può riscattare gli spiriti di tutti gli uomini di tutti i tempi, una volta per tutte:

            “Come per colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita” (Rm 5,18).

            La seconda “agonia” invece non può essere sufficiente per tutti i corpi, in quanto Gesù la sostiene con il Suo corpo umano che – per quanto perfettissimo – ha gli inesorabili limiti imposti dalla materia. Perciò la passione del corpo di Cristo – soggettivamente più che completa – deve essere oggettivamente “completata”.

            A questa seconda “agonia”, a quella del corpo, si riferisce evidentemente S. Paolo, quando dice “Completo nel mio corpo quello che manca alla passione di Cristo”.

            L’Apostolo stesso conferma questa nostra interpretazione nella sua lettera ai Romani:

            “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione gene e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,22-23).

 

Perché Gesù permette la sofferenza anche per noi, Suoi “amici”?

 

            Per meglio comprendere quanto andiamo esponendo facciamo un esempio che può aiutarci. Supponiamo che satana – per riscattare i corpi di tutti gli uomini – abbia chiesto come prezzo di riscatto un miliardo di miliardi, cifra assolutamente superiore alla possibilità di solvenza di un solo uomo, anche se perfetto.

            Gesù, come “figlio dell’uomo”, sa di non poter saldare tutto il debito e, proprio per valorizzare al massimo tutta la sua potenzialità di riscatto, permette che il suo corpo venga sottoposto a tutte le torture possibili. Riesce in tal modo a saldare una notevole parte del debito, supponiamo mille miliardi; ma ne rimangono ancora tantissimi da pagare.

            Cosa fa Gesù, che ha già dato in pienezza totale il Suo corpo, per coprire per intero il grande debito? Chiede solidarietà al Suo “Corpo Mistico” , cioè a tutti i membri della intera famiglia umana della quale è capostipite:

 

Ø      “Siete pronti a bere il calice che io berro’?” (Mt 20,22)

Ø      “Chi vuol venire dietro di me, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua” (Mt 16,24)

Ø      “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi … Vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle sinagoghe … Sarete odiati da tutti a causa del mio nome … E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima” (Mt 10,16-28).

Ø      “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11-12)

 

Gesù quindi permette che i Suoi amici subiscano persecuzioni, sofferenze e morte per poter continuare a pagare nei loro corpi il prezzo del riscatto dei corpi richiesto dal satana: supponiamo che San Pietro contribuisca con 10 miliardi, altrettanti San Paolo.

Così anche noi, che siamo il Suo Corpo spirituale nei secoli, completiamo con la nostra sofferenza l’opera della Redenzione. Ora possiamo comprendere bene quello che S. Paolo dice di se stesso: “Completo nel mio corpo quello che manca alla Passione di Cristo” e poi a tutti noi:

“Vi esorto, dunque, fratelli per la Misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale” (Rm 12,1)

 

Perché la sofferenza è necessaria per farsi santi? L’amore non è più della sofferenza?

 

            Certo, l’amore è più della sofferenza, e un atto di amore puro vale ben più di un sacrificio. Ma solo Dio è Amore e l’uomo, peccando, si è staccato da Dio e quindi non ha più Amore.

            Abbiamo già chiarito altrove (Spirito, Anima e Corpo – parte III – pagg. 95 ss.) che, se l’uomo chiude le porte al Padre, le apre al “padrone” che deforma in lui l’immagine divina, seppellendo la Luce dello spirito sotto spessi strati di materialità.

            Satana prima inganna l’uomo e lo fa peccare, poi gli dà la mercede del peccato caricandolo di sofferenza. Quindi torna alla carica prospettandogli altri peccati come unica maniera per alleviare la sofferenza. E l’uomo – infiacchito nella volontà, spento nello spirito e stordito nel pensiero – si lascia risucchiare in questo continuo vortice: sempre nuovi peccati che procurano sempre maggiori sofferenze. Meta finale sono la disperazione e la morte eterna.

            L’unica maniera per uscire da questa spirale è permettere al Padre di intervenire con la Sua potenza. Se Gli diamo spazio, Lui viene e trae dal male che abbiamo commesso un bene infinitamente più grande, trasformando la disperazione in gioia e la morte in Vita.

            E’ proprio vero che “Dio permette il male per trarne un bene più grande”. Ma solo se noi Glielo permettiamo con libera e docile volontà, accettando ogni sofferenza con gioia e con rendimento di grazie.

            La sofferenza, in tutte le sue manifestazioni racchiuse nei misteri dolorosi del Rosario, è il piccone con cui il Padre spacca tutte le incrostazioni e permette all’anima di emanare nuovamente la sua Luce divina.

            Se preferiamo un’immagine evangelica, la sofferenza è la potatura di cui parla Gesù: “Il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (Gv 15,1).

            In altre parole, la sofferenza è il mezzo di cui il Padre si serve per purificarci e farci crescere nella santità, cioè nella nostra vita divina.

            L’unico nostro dovere è la santità, cioè la riconquista delle prerogative divine che abbiamo perso con il peccato. Ma la santità è opera essenzialmente divina che solo il Padre può realizzare con la Sua azione onnipotente: è questo il “lavoro” continuo del Padre di cui parla Gesù: “Il Padre mio opera sempre” (Gv 5,17).

            Io debbo essere santo. Ma non posso “farmi santo”, come si dice comunemente, con le mie forze: la santità è “opera divina” che può realizzare solo la Trinità. L’unica cosa che io posso e debbo fare è “rinnegare me stesso e prendere ogni giorno la mia croce” (cfr. Mt 16,24), cioè rinunciare alla mia volontà e mangiare il “pane quotidiano” della sofferenza con la quale il Padre mi “pota perché porti frutto”. Frutti di santità.

            La via della santità è la via dell’Amore e la via dell’Amore è la via della croce: non ce ne sono altre. L’Amore e la Croce sono legate in modo indissolubile. La croce è la via regale dell’Amore che ha tracciato Gesù e che anche noi dobbiamo percorrere.

            Ripetiamo ancora una volta che la sofferenza non ce la manda il Padre, ma è il frutto della nostra disobbedienza e dei nostri capricci. Il Padre con la Sua Sapienza e Bontà infinite “ricicla” questa realtà di morte da noi generata dandole un valore di Vita.

            Se rifiutiamo la sofferenza non la eliminiamo, ma la vanifichiamo, non valorizzando l’unico nostro vero capitale: “Fa’ qualcosa per i malati – disse Padre Pio ad un suo figlio spirituale – non permettere che si sciupi tanta sofferenza”.

 

Perché i Santi hanno tanto amato la sofferenza?

 

            I Santi non hanno amato la sofferenza, bensì hanno amato Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5). Si sono perciò abbandonati completamente a Lui “come un bimbo nelle braccia della mamma”  (Sl 131,2), così come ha insegnato loro il Maestro e fratello maggiore Gesù, lasciandoGli piena libertà di azione perché realizzasse in loro il Suo progetto di santità, cioè di divinizzazione, guastato dal peccato.

            Tutti i Santi, pur tanto diversi tra loro, hanno un comune denominatore nell’Amore al padre che testimoniano accettando con gioia qualunque sofferenza. Loro sanno bene che possono realizzare la santità unicamente lasciandosi “potare” dal Padre che taglia tutti i tralci che non portano frutto e pota quelli buoni perché portino più frutto.

            Con la sofferenza il Padre colpisce a morte l’ “io” demoniaco che è in ogni uomo e stabilisce nuovamente negli spiriti il Suo regno di Verità e di Pace.

            Per questo i Santi che hanno ben capito l’azione di potatura di Dio, invece di lamentarsi e di piagnucolare, Gli gridano con Santa Teresa: “Signore, o patire o morire!” nell’assoluta certezza che solo nella sofferenza c’è la possibilità di crescere nello spirito e che quindi una vita senza sofferenza non merita di essere vissuta.

            Padre Pio da Pietrelcina disse a Padre Lino, in occasione dell’inizio dell’anno 1967: “Ti auguro tanta sofferenza!”, e poi, leggendo nell’animo del confratello la lotta tra lo spirito e la materia, ripetè con parole ben scandite: “E che, non ti piace? Ti ho fatto l’augurio più bello, quello della sofferenza!”

            “Padre, sì,” rispose deciso P. Lino, “sia fatta la volontà di Dio!” – “Mo’ mi piace!”, concluse Padre Pio sorridendo (da “Il Sorriso di Padre Pio” ed. Pater).

           

Perché la sofferenza è la massima testimonianza di amore al Padre?

 

            “Una sola cosa gli Angeli invidiano all’uomo: la possibilità di soffrire per dimostrare così a Dio il loro Amore” (Padre Pio).

            Quando si ama veramente una persona e la si vede soffrire, cosa non si darebbe per prendere su di sé il suo dolore o almeno per alleviarglielo?

            Gesù ama di Amore infinito il Padre Suo. Conosce fino in fondo la Sua amarezza per la lontananza dei Suoi figli e per la condizione penosa in cui questi sono precipitati; Gesù conosce inoltre il disegno che il Padre ha progettato per la redenzione dei fratelli e quale sia il ruolo che a Lui compete. Senza attendere che Gli venga proposto, si fa spontaneamente avanti con il suo assenso incondizionato e gioioso: “Ecco, io vengo, o Padre, per fare la tua Volontà” (Eb 10,9).

            L’Incarnazione e la Passione sono la massima testimonianza di amore di Gesù al Padre; per questo era geloso della Sua sofferenza e aveva urgenza di bere il calice che il Padre gli aveva preparato: “Son venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato finchè non sia compiuto!” (Lc 12,49-50).

            Per questo rimprovera con parole tanto forti Pietro che voleva opporsi alla Sua passione: “Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23)

            Questa espressione conferma e riassume quanto detto sinora: satana aveva lanciato la sua grande sfida a Dio, chiedendo come prezzo del riscatto la Sua passione e morte. Il “tentatore” – anche se non ne è certo – ha intuito che Gesù è il Messia inviato dal Padre per pagare questo riscatto, e vede traballare il suo regno. Come fece nel deserto, cerca ora di bloccare il disegno di redenzione del Padre “tentando” il povero Pietro, facendo leva sul suo amore e sulla sua povera logica umana.

 

Perché la sofferenza accettata è la massima testimonianza di amore ai fratelli?

 

            “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni agli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. (Gv 15,12-13)

            I Santi, poiché si sono lasciati “potare” e ri-generare dal Padre, sono altri Gesù: “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20) dice S. Paolo. E Gesù partecipa loro tutte le vibrazioni di Amore che Egli ha per il Padre e per i fratelli.

            Come Gesù, di cui sono il prolungamento, anche i Santi offrono al Padre la vita perché si realizzi il Suo progetto di riscatto: “Ecco, io vengo, o Padre, a fare la tua volontà!”

            Gesù non ama la sofferenza, e non la amano i Santi.

            Ma quando si è entrati in sintonia con il Cuore del Padre “afflitto” – come disse la Vergine ai tre Pastorelli di Fatima – e quando si è capita l’infinita disperazione dei fratelli ancora prigionieri del male, non ci si può più rinchiudere nel proprio egoismo. L’Amore che il Padre della Vita comunica ai Suoi figli deve espandersi, deve concretizzarsi in opere di Vita, e di queste la massima in assoluto è la sofferenza accettata e offerta per la redenzione propria e dei fratelli: “nessuno ama i suoi amici più di colui che dà per loro la vita”.

            Padre Pio da Pietrelcina, stimmatizzato visibilmente nel 1918, ha incarnato in pienezza questo spirito di donazione e di offerta, “completando nel suo corpo”, croficisso per 50 anni, “quello che manca alla passione di Cristo”. Tutta la sua spiritualità s riassume in una sua frase che è la massima espressione cui possa giungere un’anima bruciata dall’Amore per Dio e quindi per i fratelli:

“Chiedo di vivere morendo,

perché dalla morte nasca la Vita che non muore,

e la morte aiuti la Vita a risuscitare i morti”.

            Padre Pio “chiede” cioè di vivere in uno stato di continua “agonia”, di continua accoglienza della sofferenza e della morte, per permettere al Dio Vita di ri-generare i fratelli morti nello spirito.

 

Perché Gesù ci invita a “prendere la croce” e insieme a “stare nella pace e nella gioia”? Non sono due cose incompatibili?

 

            La gioia più grande di Gesù è stata quella che ha provato sulla croce, quando ha potuto dire: “Padre, perdona loro!” (Lc 23-24).

            Nel perdono che il Figlio chiede e ottiene per tutti, si squarcia la “coltre” (Is 25,7) che copriva la terra e il Padre può riaprire le braccia ai figli riscattati dal sacrificio del Figlio. Inizia il grande “ritorno” alla Casa del Padre.

            Il mistero della sofferenza è unito in modo inscindibile a quello della gioia, perché la gioia è il “grazie” che il Padre dice nel profondo dell’anima a quanti Gli dicono “sì” e si lasciano coinvolgere dalla splendida avventura della corredenzione.

            Ogni colpo di cesoia che il grande “Potatore” dà al nostro “io” è una “mortificazione”, una piccola “morte”. Se, come Gesù, diciamo sempre un gioioso “sì”, il Padre fa echeggiare dentro di noi il Suo “sì” di resurrezione che si manifesta appunto nella gioia.

            Ad ogni colpo di piccone lo Spirito demolisce un pezzo del nostro “cuore di pietra” e crea il nuovo “cuore di carte”, segno dell’uomo rigenerato, del risorto che esce dal sepolcro di morte in cui lo aveva condannato il peccato.

            Offrirsi al Padre vuol dire entrare in questa lotta tra la Vita e la morte che si scontrano in noi, con la certezza che il Suo Amore è più forte della morte e vincerà.

            Offrirsi al Padre vuol dire mettersi alla sequela del Figlio sino alla morte in croce.

            Ma la croce è pegno di resurrezione: “Vita e morte si sono scontrate in un prodigioso duello; il Signore della Vita era morto, ma ora, vivo, trionfa”. (dalla Liturgia pasquale)

            Il pegno della Resurrezione, già qui in terra, è la Gioia.

            Offrirsi al Padre vuol dire impegnarsi senza mezzi termini ad essere strumenti docili dello Spirito di Santità perché questa si effonda in tutti gli uomini. Ma la Santità è Dio, e Dio è Gioia infinita che si testimonia donando la Gioia e la Vita a quanti lo testimoniano accettando la sofferenza e la morte per Suo amore.

            Offrirsi al Padre vuol dire liberarsi dalla paura della morte e dalla sofferenza, perché Lui scioglie queste temute realtà nel momento stesso in cui le accogliamo. E, quello che sembra più assurdo, ce le fa amare e desiderare, come le uniche cose veramente preziose: “Mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo. Sono pervaso di gioia in ogni mia tribolazione” (2 Cor 12,5; 7,4)

           

Perché Dio permette il dolore innocente?

 

            Questo è l’interrogativo più inquietante: perché Dio permette che centinaia di milioni di bambini soffrano in modo indicibile, senza aver commesso nulla di male? Noi adulti facciamo il male, ma loro che peccato hanno fatto?

            Facciamo al riguardo alcune considerazioni, richiamandoci all’interrogativo che ci siamo posti all’inizio: “Perché il Padre permette la passione del Figlio?”.

            La risposta ce la dà lo stesso Gesù, che ha voluto prendere un corpo umano e che si dichiara “figlio dell’uomo”, addossandosi i peccati di tutti gli uomini di tutti i tempi per scioglierli poi nell’offerta totale della croce.

            Ogni creatura che viene concepita nel grembo di una donna entra a far parte della famiglia umana, anche se ha appena poche ore di vita: l’uomo è “uno”, anche se siamo miliardi e se non riusciamo ad accettare questa “unicità”. Non esistono le razze umane; non esistono le razze “pure”; non esistono i bianchi, i gialli e i neri. Esiste l’uomo, creato dal Padre a sua immagine e somiglianza; in ognuno ci sono tutti, in tutti c’è ognuno. La violenza fatta ad uno colpisce tutti, ed è sempre Gesù che viene colpito nel Suo Corpo Mistico: “In verità vi dico: ogni volta che avrete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40)

 

In ogni bimbo che soffre, è Gesù che continua la sua passione per il riscatto dell’uomo. Il Suo Corpo Mistico è costituito dagli uomini di ogni tempo e di ogni età, al di fuori del tempo e dello spazio e insieme nel tempo e nello spazio; è infatti realtà spirituale e materiale, che continua a formarsi e ad operare negli uomini che vivono ancora sulla terra.

            Comunque, del dolore innocente non dobbiamo chiedere conto a Dio, ma agli uomini che continuano a distruggere l’armonia dell’Amore con i loro orgogliosi comportamenti opposti alla Legge del Padre. In una parola con i loro peccati, soprattutto quelli più vili che sfociano in violenze contro i più piccoli.

            Agli uomini – cioè a noi stessi – bisogna chiedere conto del dolore innocente, che viene continuamente inferto in tanti campi e in tanti modi:

 

Ø      Prostituzione – sono gli uomini che immettono nel giro della prostituzione minorile milioni di bimbi; sono gli uomini, e tra questi molti nostri connazionali, che vanno a fare il “giretto turistico” in Brasile per partecipare alle aste in cui vengono banditi, al miglior offerente, bimbi sotto i dieci anni;

Ø      Fame – sono gli uomini chiusi nel loro egoismo, e non la oggettiva mancanza di cibo, che provocano la morte per denutrizione di milioni di innocenti;

Ø      Sfruttamento dei bimbi – sono gli uomini che costringono i bambini ad un lavoro disumano di 16 ore al giorno, come accade in molti paesi asiatici;

Ø      Delinquenza – sono gli uomini che addestrano i piccoli al male e che fanno compiere loro crimini sempre più efferati;

Ø      Divisioni familiari – sono gli uomini che creano angosce, sofferenze e traumi esistenziali ai figli dividendosi dopo aver sottoscritto liberamente un patto di fedeltà;

Ø      Educazione (cosiddetta) sessuale – sono gli uomini che insegnano ai piccoli ogni sorta di perversione, spesso tutelati da ipocrite strutture governative;

Ø      Mass media – sono gli uomini che inculcano nei piccoli ogni germe di violenza e di deviazione morale, per fini ben determinati, servendosi anche dei films e dei cartoni animati;

Ø      Onanismo – sono gli uomini che, limitandosi ad un unico figlio, lo crescono viziato e sfasato.

 

La lista potrebbe continuare, ma crediamo sufficiente quanto abbozzato per portarci alla giusta conclusione: del dolore innocente non dobbiamo chiedere conto a Dio, bensì all’uomo; cioè a noi stessi.

Ed anche nei casi in cui l’uomo sembra non aver colpa – come ad esempio nel caso di bambini nati con delle deformazioni – ricordiamo che la colpa è sempre dell’uomo, e non di Dio: se andiamo a monte, come causa prima troveremo sempre il “peccato”, cioè la disubbidienza a Dio, a quel Dio che perdona; ma non perdona la natura della quale l’uomo ha violato e deformato le sagge e perfette leggi.

Facciamoci un onesto e minuzioso esame di coscienza, e vedremo che Dio e Padre, solo Padre, e ha creato solo “cose buone” (Gn 1,12;18;21;25;31) per i Suoi figli.     

            Siamo noi che abbiamo fatto cose che “non erano altro che male” (gn 6,5) e – vili ed orgogliosi – non vogliamo riconoscere i nostri sbagli. Anzi, li legalizziamo e li contrabbandiamo per buoni, come nel caso dell’aborto e dell’eutanasia.

            Oggi i piccoli uccisi dall’aborto – che soffrono mentre vengono uccisi perché il loro spirito è vivo e avverte tutto – stanno pagando una larga fascia del prezzo del riscatto.

            Loro vorrebbero vivere, vorrebbero realizzare il progetto del Padre che li vuole vivi su questa terra, ma sono eliminati nella maniera più brutale perché nell’impossibilità di difendersi, e proprio coloro che dovrebbero custodirli li portano alla morte.

            Li vedremo in cielo festanti, con la corona del martirio, nel Cuore del Padre.

            Ringraziamoli, amiamoli e curiamone almeno la sepoltura. Il loro dolore innocente grida:

 

“Fino a quando, Sovrano, tu che sei Santo e Verace, non farai giustizia

e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?”

Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finchè fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro. Quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che ci fu un violento terremoto … (Ap 6,10-11).

 

            Riteniamo che il “numero sia completo”, e che sia vicino il “violento terremoto”. L’ora è breve, il tempo della catastrofe degli spiriti è vicino e dobbiamo essere preparati a questo giorno.

            Il grido dei piccoli martiri sta per essere ascoltato, il loro “fino a quando, Signore?” sta per compiersi.

            Valanghe di innocenti stanno provocando l’intervento del Padre durante il quale ogni uomo si guarderà dentro come uno specchio.

            Sarà il grande giudizio in cui ogni uomo inorridirà della sua bestialità e vorrà fuggire, sparire … ma incontrerà la Sua Divina Misericordia che è più forte del peccato e della morte.

 

 

PERCHE’ IL PADRE PUR SAPENDO CHE ADAMO ED EVA

AVREBERO PECCATO, HA UGUALMENTE

VOLUTO SOTTOPORLI ALLA PROVA?

 

 

            Questa è la domanda che – inesorabile come una cambiale – viene prima o poi a turbare le cognizioni teologiche di ogni povero sacerdote e di ogni catechista. Io ricordo bene quanto la posi al mio insegnante di religione al Liceo, e ricordo confusamente le disquisizioni che mi fece sul libero arbitrio dell’uomo e sulla prescienza di Dio.

            Naturalmente non mi convinse, come non ho mai convito nessuno io, rimpastando le stesse risposte alla stessa domanda.

            Ho cercato, nel mio poco, una risposta in S. Tommaso che, a differenza delle altre volte, non è riuscito a schiarirmi le idee. Credo che sia stato il mio Angelo Custode che, impietositosi, mi ha dato un “flash” che ha finalmente placato la mia mente ed il mio spirito.

            Ve lo passo così come mi è venuto, meditando una pagina del Vangelo che tutti conosciamo ma che ora dobbiamo rileggere insieme con una nuova angolazione.

 

Il figlio prodigo: il figlio perduto e il figlio fedele

 

            “Disse ancora: Un uomo aveva due figli,. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre e hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.

            Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il  vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.

            Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: E’ tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato un vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.” (Lc 15,11-32).

 

            Dei due figli, chi è il “buono”?

            Con un parametro umano, anche se a malavoglia, dobbiamo dire che è quello rimasto a casa, ed è lui stesso che ci elenca i suoi meriti. Ma qualcosa, dentro di noi, ci spinge ad optare per il secondo, i cui demeriti sono elencati sempre dal fratello rimasto fedele al Padre. Che cos’è che non quadra?

            La risposta viene dalle parole dei due: uno condanna se stesso, l’altro condanna il fratello e il padre. Il primo parla umiltà e Amore, l’altro arroganza ed egoismo. Da che dipende questo diverso modo di parlare, che è espressione di quello che è nel profondo di ciascuno?

            Il primo ha peccato, e ha portato le conseguenze del peccato che hanno azzerato il suo “io” e gli hanno fatto comprendere la sua miseria e insieme l’Amore del Padre. Il secondo non ha peccato, e la coscienza di essere integerrimo ha sviluppato il suo “io” sino a farlo esplodere in un orgoglio che è culto di sé, e che non gli ha permesso di scoprire il vero volto del Padre: lo considera un padrone al cui servizio si sottomette solo in attesa dell’eredità.

            Il fratello rimasto a casa non ha peccato secondo la “Legge”. Perciò non ha sofferto l’umiliazione e la sofferenza che sono la mercede del peccato e – tronfio del suo apparente perbenismo – non ha potuto scoprire il Volto del Padre, perché non si riteneva bisognoso della sua Misericordia.

            Il fratello che non ha peccato è quello che l’uomo sarebbe diventato se non avesse peccato.

            Il fratello “prodigo” è l’uomo che ha peccato e che – grazie alle conseguenze del peccato – è potuto morire al suo “io” e rinascere “Figlio di Dio”.

            Grazie, mio Dio, perché veramente tutto permetti per donarci un bene più grande.

            Grazie, mio Dio, perché – permettendo il peccato dei nostri progenitori – abbiamo potuto scoprire il tuo Volto misericordioso e ora possiamo chiamarTi: “PAPA’ “.

 

 

UN GIORNO NON LONTANO

LA SOFFERENZA SCOMPARIRA’ DALLA TERRA.

QUANDO?

DIPENDE DA NOI.

 

 

            Purtroppo pochi conoscono l’infinito valore della sofferenza; i più la rifiutano indurendosi spiritualmente invece di santificarsi, sminuendo il valore del dono che il Padre ha loro fatto per la liberazione propria e dei fratelli.

            I peccati che gli uomini continuano a commettere aumentano gli interessi del debito che satana-mammona esigerà sino all’ultimo spicciolo.

            Per questo non è facile pareggiare i conti, chè anzi il debito aumenta, come accade a chi contrae un grosso mutuo con le banche (il mondo di mammona) e poi, non riuscendo a pagare gli interessi sempre crescenti, si condanna inesorabilmente al fallimento.

            Cosa possiamo fare, noi che crediamo in Dio, per evitare il “crack” totale? La Mamma del Cielo ci è venuta incontro a Fatima, riproponendoci la stupenda dinamica di spirito vissuta da Lei e prospettata a noi nell’Apocalisse, grazie alla quale possiamo santificarci rapidamente: i tempi dello spirito, oggi, sono velocissimi, proprio perché sono gli ultimi.

            Una volta realizzata la nostra purificazione potremo affrontare l’ultimo scontro con l’inferno per la liberazione dei nostri fratelli ancora “captivi”, cioè prigionieri. Vediamo cosa ci dice lo Spirito nell’Apocalisse e a Fatima:

 

“Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il Regno del nostro Dio

e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore

dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte.

Essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e grazie alla

testimonianza del loro martirio perché hanno disprezzato la vita

fino a morire.” (Ap 12,10)

 

            Maria, la “Donna vestita di sole”, nel 1917 a Fatima, aveva chiaramente fatto capire che era giunto il momento di questo impatto apocalittico e – dopo aver fortificati i tre bambini nel Sangue dell’Agnello tramite la Comunione data loro dall’Angelo – aveva insegnato ai tre piccoli come combattere e vicende questo scontro, attualizzando il concetto espresso dall’Angelo dell’Apocalisse:

 

“Volete offrirvi al Padre,

pronti ad accettare

qualunque sofferenza vorrà mandarvi,

per la conversione dei peccatori e per

la pace nel mondo?”

 

            I bambini risposero “Sì” e la Signora continuò

 

“Bene, dovrete soffrire molto,

ma la grazia di Dio sarà il vostro conforto.”

 

            Lucia, nelle sue Memorie, aggiunge: “ Nel pronunziare queste parole Ella aprì le mani, comunicandoci una luce molto intensa, come un riflesso che da Lei si partiva e che ci penetrava nell’intimo dell’anima. Quella luce era Dio”.

            E’ una nuova Annunciazione e insieme una nuova Pentecoste, nella quale i tre piccoli diventano, come Maria, emanazione di Grazia: il Portogallo, laico e massonico, si trasforma nella terra di Maria da cui si irradierà nel mondo una Luce infinita. La “Signora”, regale nella sua munificenza, ricambia il “sì” dei tre bimbi promettendo che avrebbe salvato la loro Patria dalla II Guerra Mondiale e che inoltre il Portogallo non avrebbe mai perso il dono della Fede.

            Maria nel “sì” di Lucia, Francesco e Giacinta rinnova e continua la propria donazione al Padre, permettendoGli di realizzare la nascita di una nuova Chiesa e di una nuova umanità che tutta si donerà a Lui.

            L’insegnamento che ci viene da Fatima è chiarissimo: se con tre bambini che accettano la sofferenza, la Vergine riesce a salvare una intera nazione dallo sfascio di una guerra materiale di spirito, se in tanti Le diremo il nostro “Sì”, il mondo intero potrà presto essere liberato dal male.

 

            Cari fratelli, ora tocca a noi.

 

            Tutti i membri del Corpo Mistico, cioè tutti gli uomini, hanno versato e continuano a versare il loro tributo di sofferenza all’infernale esattore: chi, tra gli uomini, non soffre?

            A questo riguardo è bene ricordare un episodio narratoci da F. Daniele Natale, una santo fratello cappuccino morto  pochi mesi orsono, molto vicino a Padre Pio da Pietrelcina:

 

“Quando Padre Pio celebrava la S. Messa al momento dell’Offertorio, il mio spirito si univa al suo e andavamo in giro per il mondo a raccogliere tutte le sofferenze umane.

Visitavamo luoghi terribili, come ad esempio delle piccole celle nelle quali si trovavano strette tante persone in condizioni spaventose; Padre Pio metteva tutto questo oceano di sofferenza nella sua patena, lo univa alla sua assurda sofferenza, e offriva tutto al Padre”.

 

            Anche se questo enorme patrimonio di Grazia è sminuito dal rifiuto dei più a collaborare docilmente all’azione salvifica del Padre, è pur sempre un capitale notevole.

            Ma quando finiremo di pagare?

            Stando all’Apocalisse – le cui vicende sono quasi terminate – e a quanto detto da Maria a Fatima, la nostra liberazione dovrebbe essere vicina.

            “Ti prometto – avrebbe detto la Vergine a Lucia di Fatima – che non verrai in Cielo prima di aver visto sulla terra il Trionfo del mio Cuore Immacolato”. Lucia ha 88 anni, essendo nata il 22 marzo 1907 …

            E’ quindi questione di anni, di pochi anni, penso entro questo secolo: dipende da noi, dalla generosità con cui risponderemo all’impulso dello Spirito che continua a spronarci per mezzo di Maria, del Papa e dei Santi.

            A Medjugorje come a Fatima la Vergine è tornata per rinnovare lo stesso invito a tutti gli uomini:

“Testimoniate con la vostra vita e

sacrificate le vostre vite per

la salvezza del mondo.

Io sono con voi e vi ringrazio.

In Cielo, poi, riceverete dal Padre

il premio promesso.”

 

“Cari figli, vi invito all’abbandono totale a Dio.”

 

            E il Santo Padre Giovanni Paolo II riecheggia questo concetto, raccomandando ai promotori dell’Apostolato della Preghiera:

 

“di diffondere, mediante l’offerta della propria vita

al Cuore di Gesù, lo spirito della redenzione,

a insegnare cioè ai fedeli ad essere come Maria:

Corredentori con Cristo.”

 

“Infine il mio Cuore Immacolato trionferà.

Il Santo Padre mi consacrerà la Russia

che si convertirà e sarà concesso

al mondo un tempo di pace.”

(Maria a Fatima)

 

            Giovanni Paolo II ha consacrato la Russia a Maria il 25 Marzo 1984. Il Comunismo, il grande dragone rosso, è caduto. Manca solo la conversione della Russia: dalla Russia è partito un errore, come disse Maria a Fatima; dalla Russia partirà la Luce per la nuova umanità.

            Bisognerà dunque darsi da fare perché la Russia “si converta”. Ma sino ad oggi questa urgenza è stata avvertita solo dall’inferno che ha vomitato in quelle terre due volte martiri la feccia di tutte le sette e di tutte le perversioni.

            Ma nonostante la nostra ignavia, la Luce vincerà. Come? Con l’amore, la preghiera, la sofferenza e il martirio degli innocenti.

            Coraggio e avanti! La nostra liberazione – preparata da millenni di sofferenza – è vicina. Affrettiamola offrendo tutto al Padre che unirà la nostra sofferenza a quella dal Suo Gesù che viene a giudicare l’ “accusatore dei nostri fratelli”  e a liberarci dalla nostra prigionia:

 

“Vidi poi un cielo nuovo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.

Udii allora una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed Egli sarà “Dio con loro”.

E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 1-4)

 

            Ringraziamo sin da ora il Padre che, con il contributo anche della nostra sofferenza ci fa strumenti attivi della nostra creazione: liberi dal peccato e dalla morte, dopo aver finalmente riconosciuto in Dio il Papà infinitamente dolce e premuroso inizieremo ad essere i divini artefici dei nuovi Cieli e delle nuove Terre.

            L’uomo – riscattato dalla sofferenza – inizierà a vivere la sua dignità di figlio di Dio, del Quale sarà finalmente “immagine e somiglianza”.

 

 

F I N E

Finito di stampare nel dicembre 1995