CRISI ALIMENTARE:

UN PROBLEMA CHE S'AFFACCIA ANCHE IN OCCIDENTE

 E CHE RICHIEDERÀ SEMPRE DI PIÙ LA COLLABORAZIONE

DI TUTTI I GOVERNI DEI POPOLI DELLA TERRA

 

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Sapete che cos'è la fame?

Fonte web

Chi non ha vissuto la guerra probabilmente non ha ben chiaro cosa sia la fame. Nei paesi industrializzati, dagli anni Sessanta in poi, la fame o la mancanza di cibo non hanno più rappresentato un problema, e le generazioni che hanno vissuto in questo clima ne hanno solo una vaga concezione.

D’altronde per chiunque sia mai entrato in un supermercato è difficile concepire la mancanza di cibo come un problema.  Sia chiaro, la malnutrizione a livello globale è ben nota, ma ben altra cosa è riuscire a immedesimarsi in una realtà dove avere sufficiente nutrimento per sopravvivere rappresenta una vera e propria lotta per la sopravvivenza.  Se solo fosse più chiaro questo concetto, non leggeremmo le statistiche di Slow Food che ci dicono di come quasi la metà del cibo acquistato e ancora commestibile venga buttato nei cassonetti della spazzatura.

Purtroppo l’abbondanza di prodotti, alimentari e non, da cui siamo circondati agisce in perfetta sintonia con il modello di società dei consumi.  Chiunque è portato a non prestare particolare importanza al cibo che mangia, proprio perché esso non rappresenta un bene “raro”, bensì un prodotto facilmente acquistabile nel negozio più vicino. La FAO ha reso noto che al 2012 le persone che soffrono la fame sono circa 870 milioni, distribuiti principalmente fra Asia, Africa e America Latina.  Ma a  dispetto del numero enorme, comunica anche un dato positivo, ovvero che questo numero è in realtà diminuito dal 1990, dal 18 % della popolazione mondiale a circa il 12 %.

Questo trend positivo si è però fermato negli ultimi tre anni, ostacolato dalla crisi economica del 2008, e tuttavia si sono registrati risultati meno gravi di quanto gli esperti avevano pronosticato. L’innovazione tecnologica, la crescita dell’economia nei paesi in via di sviluppo e un più integrato processo economico internazionale sono stati i principali fattori strutturali che hanno determinato una diminuzione della fame nel mondo. Ma questo progresso è andato di pari passo con l'accentramento della quasi totalità del mercato agroalimentare globale nelle mani delle multinazionali alimentari, che conseguendo per loro natura il massimo profitto, hanno perseguito minimi costi di produzione (tra cui la manodopera) per rivendere il prodotto finito nei ricchi mercati dei paesi industrializzati. Si è instaurato così un processo dove restano esclusi i produttori a vantaggio dei consumatori, che possono beneficiare di prezzi bassi e competitivi (e a vantaggio, ovviamente, dell’azienda che riesce a garantirli).

La vera battaglia si gioca sulla sensibilizzazione del consumatore.  Numerosi progetti portati avanti negli anni, come per esempio Altromercato, si sono focalizzati proprio su questo paradosso,  proponendo come soluzione prezzi più alti per i prodotti finali, giustificati però da una maggior tutela dei diritti dei produttori e dell’ambiente.  È attraverso un consumo alimentare più consapevole, più attento a tutte le fasi della filiera, alle pratiche di coltivazione e ai diritti dell’agricoltore che si può sperare in un'equa distribuzione alimentare, ponendo in secondo piano il proprio vantaggio personale.

 

 

Alle radici della crisi alimentare mondiale

 

Le cinque cause della crisi alimentare

 

 

La politica del land grabbing crea

una crisi umanitaria globale

Fonte web

Uscire da una crisi generandone altre, anche più gravi. È questo, in sintesi, quanto avviene con il land grabbing, la politica di accaparramento delle terre portata avanti – soprattutto in Africa – dai Paesi sviluppati o in via di sviluppo per far fronte alla crisi economica. Una risposta che porta con sé la distruzione di interi ecosistemi sociali ed ambientali, migrazioni e violenza, in quella che in molti definiscono una nuova forma di colonialismo.

In questo sistema, evidenzia un dossier dell’associazione Re:Common – figlia della Campagna per la riforma della Banca Mondiale – a giocare un ruolo di primo piano c’è l’Italia, superata solo dalla Gran Bretagna tra quelli che il rapporto realizzato lo scorso anno da Giulia Franchi e Luca Manes definisce senza mezzi termini gli arraffaterre.

Jatropha: il nuovo corso del Made in Italy
Al centro degli affari italiani, soprattutto in Africa, la Jatropha Curcas, un arbusto velenoso considerato per anni “la nuova frontiera della sostenibilità”. I fautori del suo utilizzo, infatti, sostengono che la sua coltivazione non crei alcun tipo di ostacolo o pericolo per la sicurezza alimentare. I semi di questa pianta producono un olio che, pur non commestibile, può essere utilizzato come combustibile o trasformato in biodiesel. È questo il business che fa gola ai governi, Italia inclusa.

Negli anni varie ricerche hanno però ridimensionato il potere “sostenibile” della Jatropha, le cui aspettative di rendimento sono fortemente disattese per il forte uso di acqua, pesticidi e fertilizzanti per la coltivazione industriale. Un mercato dal segno spesso negativo influenzato anche dalla speculazione.

Inoltre, la coltivazione di questa pianta porta all’emissione di alti livelli di anidride carbonica – rendendo di fatto nulli risparmi economici e vantaggi ambientali – nonché alla violazione di diritti umani dei quali, però, ben poche tracce si trovano nei media, nonostante il land grabbing porti ad economie locali distrutte; comunità indigene sfollate nei campi di reinsediamento, arresti arbitrari, torture e governi che stringono accordi migliori con gli investitori stranieri che con le proprie popolazioni.

Paradigma Etiopia: come si crea una crisi umanitaria
3,6 milioni di ettari. È la superficie di terreni che l’Etiopia ha concesso a società straniere tra il 2008 ed il 2011. In pratica una parte del suo territorio grande più o meno come l’Olanda – nella quale ricadono alcune tra le zone più fertili del Paese – è stato espropriata alla popolazione per la produzione di agro-carburanti o cibo destinato all’esportazione in un’area che soffre di una grave crisi umanitaria, in cui 12 milioni di persone si ritrovano senza cibo né acqua.

Il processo di rilocazione (o “villagizzazione”) del governo di Adis Abeba è entrato addirittura in due rapporti dell’ong statunitense Human Rights Watch dello scorso anno (Waiting Here for Death. Forced Displacement and “Villagization” in Ethiopia’s Gambella Region e What will happen if hunger comes? Abuses against the indigenous peoples of Ethiopia’s Lower Omo Valley). Sono infatti almeno 70.000 nella sola regione occidentale di Gambella gli etiopi scacciati dalle proprie terre per far posto agli interessi delle società straniere.

A causa delle caratteristiche ambientali“, scriveva l’antropologo Marco Bassi sul Corriere della Sera nel 2011, “le terre vengono dichiarate «vuote» o «inutilizzate» dal governo, e messe a disposizione degli investitori. La negoziazione avviene solo con le autorità governative, senza nessuna consultazione con la popolazione indigena e senza tenere in alcun conto le forme consuetudinarie d’uso, che comunque garantiscono la sopravvivenza di queste face deboli della popolazione rurale“.

Tra le società coinvolte – si legge ne Gli Arraffaterre – l’italiana Fri-El Green Power S.p.a., operante nel settore delle energie rinnovabili dalla fase di ricerca a quella di vendita e nel portafogli circa 80.000 ettari di terreno utilizzabili tra Etiopia, Nigeria (concessione di 11.292 ettari nello stato meridionale di Abia con diritto di espansione fino a 100.000 ettari) e Repubblica Democratica del Congo, dove nel 2008 la società ha rilevato due imprese statali – Sangha Palm e Congo National Palm Plantations Authority – che gli permettono l’uso di una piantagione di palma da olio di 4.000 ettari, estendibile a 40.000 in trent’anni.

Nel 2006 la società ha inoltre investito 85 milioni di euro nella centrale termoelettrica di Acerra, secondo stabilimento più importante in Europa per la produzione energetica da oli vegetali, fortemente contrastato dagli ambientalisti per la presenza di policlorobifenile (pcb) nell’olio di palma usato per la combustione proveniente da suoli contaminati, come denunciato già due anni fa dai comitati di residenti e Forum Ambientalista.

Di poche settimane fa, inoltre, la prima concessione comunale alla Ecodrin per l’apertura di un impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi, amianto, batterie al piombo ed altre sostanze tossiche in un territorio già fortemente provato dal punto di vista ambientale. Una situazione che, a lungo andare, potrebbe far impallidire persino quanto avviene a Taranto con l’Ilva.

I 30.000 ettari nella zona sud-occidentale di Omorate, si legge nel rapporto, sono stati ottenuti “in concessione dalla compagnia tramite un contratto di affitto siglato con il governo del valore di 1,7 milioni di birr l’anno (ovvero 2,5 euro l’ettaro l’anno) e della durata di 70 anni“.
Tra i dettagli della concessione, non è stato inserita alcuna forma di risarcimento per le popolazioni coinvolte.

In quella stessa zona, peraltro, fin dal 2006 il governo di Addis Abeba ha appaltato per 1,4 miliardi di euro all’italiana Salini Costruttori la costruzione della diga Gibe III, che produrrà circa 6.500 GWh all’anno sbarrando la strada al fiume Omo, il cui bacino è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco, mettendo a rischio la sicurezza alimentare di almeno 200.000 persone e creando le premesse per future guerre inter-etniche per l’accaparramento delle risorse rimaste a disposizione.

Poco più di 3 euro è quanto il Gruppo Finanziario Tampieri, attraverso la controllata Senhuile SA voleva pagare per la coltivazione di patate dolci e girasoli nei 20.000 ettari di terreno nella vallata del fiume Senegal prima che l’ex-primo ministro Souleymane Ndéné Ndiaye bloccase tutto a seguito delle proteste portate avanti dal Collectif pour la défense des terres de Fanaye, che hanno portato alla morte di tre persone nell’ottobre 2011.

Come in Etiopia, anche il governo del Senegal non ha previsto alcuna forma di risarcimento né di vantaggio dalla concessione per 99 anni di alcune delle sue terre al Gruppo Tozzi, presente nel paese con la TRE-Tozzi Renewable Energy e la società di diritto JTF Senegal SARL. Anzi, nell’accordo – si legge nel numero 9/2009 della newsletter della Diplomazia Economia Italiana realizzata dalla Farnesina e da Il Sole24Ore-Radiocor – è previsto che la società possa importare materiali e attrezzature “senza alcun dazio” rivendendo il prodotto al governo senegalese “a prezzo di mercato“.

Unione Europea, spettatrice interessata
A fronte della situazione etiope, paradigmatica dell’intero sistema di sfruttamento, gli eurodeputati Silvia Costa, Sergio Cofferati e Patrizia Toia del Pd ed Elisabetta Gardini del Pdl il 12 febbraio 2012 hanno presentato un’interrogazione parlamentare a Catherine Ashton, Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione Europea. La sua risposta è stata che i dati in suo possesso non avvalorano le tesi portate dai rapporti di Human Rights Watch. Sembra dunque essere meno casuale il fatto che proprio l’UE sia tra i principali donatori di aiuti internazionali all’Etiopia.

 

 

Crisi alimentare globale

 

Crisi alimentare nel Sahel, in Africa occidentale

 

 

Basta con la speculazione delle banche sulle materie prime

 alimentari. Oxfam lancia una campagna e i primi

 istituti cominciano a fare marcia indietro

Fonte web

La finanza basata sui mercati delle commodities agricole specula sulla fame dei ceti meno abbienti. È quanto emerge con chiarezza in un recente rapporto di Oxfam France, non il primo ma forse il più efficace dei report in materia, visto che i primi gruppi bancari europei iniziano a ritirarsi dagli affari sporchi.

Negli ultimi dieci anni si é innescato un pericoloso sistema di scommesse sull’andamento dei listini delle derrate agricole di base. Questa crescita esponenziale del mercato finanziario non corrisponde però alla realtà degli scambi il cui incremento é per lo più lineare essendo collegato all’andamento demografico e dei consumi nei paesi emergenti.

Così, se su un bushel di grano (1) gravitano capitali fittizi sino a 80 volte il suo prezzo (2), basta una pur modesta diminuzione dei raccolti, a causa di alluvioni o siccità o incendi, per fare volare i prezzi delle materie prime.

Molte banche in ogni continente – con rare eccezioni, come quelle cinesi – continuano a scommettere sul cibo che c’è o che manca. Alcune lo fanno direttamente, altre mediante titoli d’investimento. Rosso o nero, rien ne va plus. L’unico piatto che piange è quello dei diseredati, ovunque nel pianeta. Quando il listino fibrilla, c’è solo la fame per quel miliardo e mezzo di esseri umani che vive con meno di due dollari al giorno.

Alcuni istituti bancari cominciano a cambiare filosofia, preso atto della crescente attenzione di cittadini-correntisti-investitori su questi temi.

- In Francia, BNP Paribas, il primo gestore di fondi d’investimento basati sulle commodities agricole, ha di recente sospeso uno di questi fondi del valore di 214 milioni di dollari. Crédit Agricole ne ha chiusi tre.

- In Germania, Landesbank Berlin, Landesbank Baden-Württemberg e Commerzbank e in Austria Österreichische Volksbanken hanno abbattuto gli investimenti nel settore, a seguito della campagna attivata da Oxfam Germany lo scorso anno.

- Nel Regno Unito, Barclays ha a sua volta dichiarato l’intento di cessare il trading di soft commodities, riconoscendo tale attività “non compatibile con i propri obiettivi”.

Altri istituti bancari però continuano ad adottare politiche finanziarie molto disinvolte. Deutsche Bank e Allianz, i più grossi commodity traders governati dalla signora Merkel, si giustificano affermando che le speculazioni non c’entrano, e che la volatilità dei prezzi dipenderebbe solo da altri fattori (3). Provano a “buttarla in caciara”, come si direbbe a Trastevere, e mantengono l’omertà sul livello dei loro investimenti e delle speculazioni sulle derrate agricole primarie.

A livello europeo, i fondi basati sulle materie prime alimentari sono almeno 66, per un valore complessivo di circa 3,6 miliardi di euro, e la loro volatilità varia dal 22 al 24%, secondo gli analisti di Morningstar (4).

Oxfam però non molla la presa e continua nella sua campagna di informazione. In Belgio ad esempio l’Ong ha avviato un’iniziativa per mettere a nudo l’esposizione di KBC Bank e Dexia sulle commodities agricole. Entro giugno saranno pubblicati due rapporti, il primo sui meriti degli investimenti socialmente responsabili, il secondo sul ruolo delle banche francesi nel finanziare l’industria dei biocarburanti.

E le nostre banche? E le società italiane di gestione del risparmio? Alla prossima puntata.

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(1) Il bushel è un’unità di misura per i cereali

(2) Vale a dire che è stato comprato e rivenduto 80 volte, virtualmente, attraverso lo scambio di titoli la cui relazione sottostante é appunto la vendita di quel bushel.

(3) È pur vero, come si è accennato, che diversi fattori – come gli eventi atmosferici ma anche le politiche sui dazi e i bandi alle esportazioni – contribuiscono agli squilibri tra domanda e offerta. Ed è vero che l’assenza di politiche sulle scorte impedisce di calmierare tali squilibri, i quali perciò si riflettono sui prezzi. Ma l’effetto-volano che fa volare i prezzi alle stelle è proprio quello innescato dai fondi di investimento che – in uno scenario di alta volatilità – hanno trovato il pane per i loro denti. Solo per i loro purtroppo

(4) A ben vedere alcuni strumenti finanziari in agricoltura avevano, in origine, un significato non meramente speculativo. I cosiddetti “futures” potevano di fatto assicurare i diversi operatori (agricoltori da un lato, mangimisti, molini, industrie dall’altro) rispetto ai rischi di sbalzi dei listini al di sopra o al di sotto di determinate soglie. Ma la completa de-regolazione ha favorito la proliferazione di strumenti complessi, sempre più lontani dal mercato reale e difficili da verificare (quanto a funzionamento e garanzie)

 

 

La crisi alimentare

 

 

Come raccontiamo la crisi alimentare

 

E dove sbagliamo, secondo un provocatorio articolo

di Jonathan Foley molto letto e molto commentato in rete.

 

Fonte web

Jonathan Foley è un ecologo americano, direttore dell’Institute on the Environment dell’Università del Minnesota negli Stati Uniti. Studia l’interazione tra la società umana e l’ambiente, e in un Ted Talk di alcuni anni fa parlava di un’”altra scomoda verità” (l’allusione è al celebre documentario dell’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore sul cambiamento climatico): per garantire un futuro all’umanità e al pianeta, spiegava, dovremo ripensare da cima a fondo l’agricoltura e la produzione di cibo.

Il suo articolo Changing the Global Food Narrative, scritto per la rivisita online Ensia e molto commentato in rete, ha raccolto apprezzamenti per il suo approccio pratico e non ideologico sui temi che più dividono esperti e opinione pubblica: dall’ingegneria genetica applicata ai cibi all’agricoltura biologica, fino allo spreco di prodotti alimentari.

Secondo Foley, c’è qualcosa che non va nel modo in cui il problema alimentare viene raccontato.

Lo avrete già sentito un sacco di volte. Le parole esatte possono cambiare, ma di solito il discorso suona così: la popolazione mondiale crescerà fino a 9 miliardi di persone entro la metà del secolo, mettendo a dura prova la produzione di cibo. Per soddisfare questa domanda crescente, nel 2050 dovremo coltivare quasi il doppio di quanto coltiviamo oggi. E questo significa che dovremo usare colture geneticamente modificate e altre tecnologie avanzate per produrre quella quantità aggiuntiva di cibo. Nutrire il mondo è una gara, ed è meglio che iniziamo a correre. A essere onesti, ci sono elementi di verità in ognuna di queste affermazioni. Ma sono ben lontane dall’essere complete. E danno una visione distorta del sistema globale del cibo, che può portare a scelte politiche e di investimento sbagliate. Per prendere decisioni migliori, dobbiamo capire in che punti questo racconto esce dai binari.

Il problema di quel “racconto”, secondo Foley, è che si occupa solo di metà del problema del cibo, guardando all’offerta e non alla domanda. E presenta come inevitabile qualcosa che in realtà dipenderà dalle nostre scelte. A mettere a rischio la sicurezza alimentare del pianeta non è tanto la crescita della popolazione in sé, quanto il cambiamento della dieta mondiale. La crescita nella domanda di cibo entro il 2050, sostiene Foley, deriverà per due terzi dal cambiamento nelle diete, e solo per un terzo dalla crescita della popolazione. Il problema non sono quei 2 miliardi di persone in più, ma i 3 o 4 miliardi che usciranno dalla povertà e che potrebbero passare da una dieta essenzialmente vegetariana a una a base di latticini e carne, come quella predominante in molti paesi occidentali (e che è la meno sostenibile per il pianeta). Ridurre il consumo di carne e prodotti animali nei paesi sviluppati ed evitare una sua impennata in quelli in via di sviluppo contribuirebbe già molto a tenere sotto controllo la futura emergenza cibo.

Ovviamente non basta: dovremo produrre di più, ma non tanto quanto alcuni suggeriscono, secondo Foley.  Dovremmo soprattutto ridurre la quantità di prodotti agricoli che coltiviamo ma non mangiamo: riducendo gli sprechi (quelli al consumo nei paesi sviluppati, ma soprattutto il cibo che va perso prima di essere consumato nei paesi più poveri); evitando di usare così tanti prodotti agricoli per produrre mangimi; e rivedendo le politiche sui biocarburanti.

Sulla questione Ogm, Foley si dichiara neutrale.

Non credo che gli OGM pongano evidenti minacce alla salute (anche se si dovrebbe fare più ricerca sull’argomento) e non sembra nemmeno che creino minacce ambientali dirette. La maggior parte delle preoccupazioni che sento hanno a che fare con il modo in cui sono usati da grandi corporazioni in monocolture su vasta scala. Ma questi sembrano più che altro problemi delle grandi monocolture, non degli OGM di per sé.  Gli OGM potrebbero, in effetti, servire a ridurre l’uso di pesticidi e aiutare goi agricoltori a ridurre l’aratura dei terreni, lasciando più nutrienti nel terreno. Ma non sono convinto che gli OGM stiano davvero fornendo più cibo al mondo.

In futuro, sostiene, nuove varietà di OGM potrebbero contribuire in modo decisivo alla soluzione del problema alimentare. E di sicuro la ricerca in questo campo deve continuare. Ma sul breve termine, per i paesi in via di sviluppo, è probabilmente più facile ottenere aumenti di produttività dei terreni attraverso una combinazione di concimazione organica, moderate quantità di fertilizzanti e sistemi di irrigazione.

Un “nuovo racconto” della crisi alimentare dovrebbe, secondo Foley, suonare così:

Il mondo ha di fronte un’enorme sfida per nutrire una popolazione in crescita e sempre più ricca – specialmente se vuole farlo in modo sostenibile, senza compromettere le risorse e l’ambiente del pianeta. Per affrontare queste sfide, dovremo far arrivare più cibo al mondo, in parte coltivando più cibo (e riducendo allo stesso tempo l’impatto ambientale dell’agricoltura) e usando meglio il cibo che già abbiamo. Le strategie chiave comprendono la riduzione dello spreco, il ripensamento delle nostre diete e delle scelte sui biocarburanti, e coltivare più cibo alla base della piramide alimentare con innovazioni agronomiche a bassa tecnologia. Soltanto un approccio bilanciato, che guardi sia alla domanda che all’offerta, potremo affrontare questa sfida così difficile. 

 Leggi la versione integrale su Ensia

 

 

APPROFONDIMENTO

 

CINA – Il suo ruolo nella crisi alimentare globale

PAESI CON UNA GRANDE RICHIESTA DI MATERIE PRIME stanno studiando politiche per arginare il problema, anche se ancora una volta la responsabilità sembra essere quella della speculazione e la gestione dei prezzi. India, Cina e Paesi in forte sviluppo, hanno spostato l’ago della bilancia della richiesta, creando un problema relativo agli approvvigionamenti da parte del ricco Occidente.

 

CRISI ALIMENTARE,UN ESEMPIO

IL CASO DELLO YEMEN - I paesi in via di sviluppo stanno subendo effetti deleteri del rincaro di mais, soia e grano. Uno dei più colpiti è lo Yemen, che acquista dall’estero il 90% del grano. Qui 10 milioni di persone soffrono la fame e circa 267.000 bambini sono a rischio di morte per malnutrizione. Le famiglie ricorrono a misure estreme per sopravvivere, finendo per far sposare le figlie anche piccole per avere una bocca in meno da sfamare.

 

Perché gli scontri per il cibo potrebbero diventare la normalità

A due anni dalle dimissioni del dittatore Hosni Mubarak poco è cambiato in Egitto. Piazza Tahrir è rimasto il luogo di scontri ininterrotti fra dimostranti e forze di sicurezza, nonostante un presidente neo eletto. Lo stesso accade in Tunisia e in Libia, dove le proteste e le manifestazioni sono continuate dopo che sono stati eletti governi apparentemente democratici.

 

Crisi alimentare, l?allarme rosso della Banca Mondiale:

milioni di persone a rischio povertà

 

Dopo l’allarme desertificazione lanciato dal responsabile delle Nazioni Unite per le terre aride Luc Gnacadja, i segnali della crisi alimentare in arrivo espressi dal Relatore Speciale ONU per il diritto al cibo Olivier De Schutter, la risoluzione del Parlamento europeo sulla “food security” e la comunicazione della Commissione europea contro le speculazioni finanziarie basate sulle “commodities” agricole, è arrivata la Banca mondiale a confermare che la situazione è davvero grave, e altri 44 milioni di persone sono destinate a patire la fame. Uno stimolo in più, per il prossimo G20, ad agire con determinazione e urgenza.